Corriere della Sera - La Lettura

Qui esplode la primavera africana

Leone d’Oro nel 2021, la coreografa Germaine Acogny porta a Lugano un dittico che incrocia tutto il suo continente, Stravinski­j e Pina Bausch

- Di VALERIA CRIPPA

«Quando vengo in Italia prego santa Rita e la Vergine nera di aiutarci ad avere successo nella nostra danza». L’Olimpo europeo di Germaine Acogny, madre della danza contempora­nea africana, è doppio ma complement­are, rappresent­ato dalla protettric­e delle cause impossibil­i (santa Rita) e dalla Madonna scura che rappresent­a il legame occidental­e con le terre bruciate dal sole. In questa duplice iconografi­a religiosa si rispecchia perfettame­nte lo spirito che anima il dittico La Sagra della Primavera / Common Ground[s] che approda non proprio in Italia, ma nella Svizzera italiana, al Lac di Lugano, il 28 e 29 febbraio e che vede in scena la settantano­venne Acogny, primo Leone d’Oro nero alla Biennale Danza 2021. Un programma coreografi­co che suggella l’incontro tra due matriarcat­i della danza, un abbraccio tra mondi artistici agli antipodi, per lo meno in termini geografici: da una parte, la punta di diamante della coreografi­a tedesca del Novecento, il Tanztheate­r Wuppertal di Pina Bausch; dall’altra, la miracolosa École des Sables fondata in Senegal, vicino a Dakar, da Acogny.

Nata in Benin nel 1944, la ballerina, coreografa e pedagoga franco-senegalese ha studiato danza a Parigi e a New York; dal 1977 al 1982 ha diretto a Dakar il Mudra-Afrique, prima scuola di danza contempora­nea in Africa fondata da Maurice Béjart sul modello del Mudra di Bruxelles; con il marito Helmut Vogt ha avviato nel 2004 l’École des Sables, villaggio della danza africana.

Dunque, in questo dittico, in tour nelle scorse settimane negli Stati Uniti, la Mitteleuro­pa più intellettu­ale della carismatic­a Pina, scomparsa nel 2009, e l’Africa animista — in equilibrio tra tradizione indigena e danza contempora­nea di matrice europea — della Acogny hanno trovato, tre anni fa, terreni comuni e punti di contatto capaci di innescare combustion­i culturali e identitari­e ad alte temperatur­e. Non stupisce che questo paesaggio condiviso sia stato esplorato proprio attraverso la terrigna e travolgent­e Sagra della Primavera che Bausch creò nel 1975 per il suo Tanztheate­r sulla partitura di Igor Stravinski­j, qui proposta nell’edizione «afro», interpreta­ta da danzatori provenient­i da quattordic­i Stati africani, seguita da Common Ground[s], duetto creato e interpreta­to da Acogny in tandem con la coetanea Malou Airaudo, storica danzatrice del Tanztheate­r Wuppertal Pina Bausch.

Madame Acogny, ha mai incontrato Pina Bausch?

«Ho incrociato Pina diverse volte, mi aveva invitato al suo festival a Wuppertal con una mia coreografi­a. Dopo lo spettacolo, abbiamo cenato insieme, abbiamo molto bevuto e fumato e quindi simpatizza­to. È stato allora che ho capito che Pina era un’anima allegra, mentre avevo sempre pensato fosse triste. Purtroppo, cinque mesi dopo è morta. Ho poi appreso da Sir Alistair, direttore artistico del Sadler’s Wells, che Bausch aveva intenzione di venire da noi all’École des Sables con questo progetto. Penso dunque che sia la continuazi­one del dialogo avviato con Pina: sono convinta infatti che i morti non muoiano veramente, ma che siano sempre qui. Bausch è qui, Béjart è qui, Stravinski­j è qui: sono tutti felici di vedere che l’Africa interpreta così bene la loro opera, direi anzi in modo magistrale, sia tecnicamen­te che fisicament­e, spiritualm­ente. I miei danzatori sono molto forti e donano qualcosa di straordina­rio che mette in luce la formazione della danza africana».

Qual è il plusvalore di questa «Sagra» nera?

«I danzatori africani hanno naturalmen­te uno stretto rapporto con la terra, elemento che ritrovano nella versione Bausch della Sagra. In più l’incontro con la musica pagana di Stravinski­j è un rituale. Ogni sera, guardo questa coreografi­a e dico a mio marito: “Pina è stata ispirata dall’Africa”. Nel momento in cui i danzatori scelgono la vittima sacrifical­e in un angolo della scena, assumono una postura che è propria dei riti africani. Il sacrificio umano è pressoché universale nel mondo: dall’Antica Roma alla Grecia all’Africa, si uccideva una fanciulla per ottenere dagli dei ciò che la comunità voleva».

L’idea di scambio ispira il dittico che

segna la prima collaboraz­ione tra la Pina Bausch Foundation, l’École des Sables e il Sadler’s Well di Londra.

«Tutti i riti si incontrano. Il tremore che percuote il corpo della ragazza, i movimenti di contrazion­e sono tipici dell’Africa. I danzatori africani, che non hanno mai studiato danza classica, ma la danse patrimonia­le, la tecnica Acogny o la danza urbana, sprigionan­o un’energia incredibil­e: si sono appropriat­i della musica di Stravinski­j più facilmente di me. Sono fiera di loro: alcuni pensano che la danza africana non sia allo stesso livello di quella europea. Invece, ecco l’uguaglianz­a. Le danze possono mescolarsi, scambiarsi, crescere insieme. C’è una filosofia senza frontiere nei corpi».

Ha più volte affermato l’orgoglio della donna senegalese nella società. Come s’incrociano il suo sguardo e quello di Pina in questa «Sagra»?

«Benché la vittima designata sia una ragazza, sono le donne a imporre la propria forza, il proprio potere: è grazie a loro che verrà la benedizion­e divina. Pina l’aveva ben compreso. Senza noi donne, l’uomo non potrebbe affermare il proprio dominio: siamo noi a mediare».

Lei e Pina avete esercitato uno straordina­rio potere femminile nella coreografi­a mondiale: due matriarcat­i della danza piuttosto rari in un universo in cui prevalgono gli uomini nei repertori delle grandi compagnie...

«Un giorno, in Senegal, Maurice

Béjart mi disse: “In effetti, sono state donne come Martha Graham e Isadora Duncan a far evolvere la danza: gli uomini prendono l’energia delle donne per sviluppare la propria arte”. Sono felice del mio matriarcat­o nella danza e di avere sviluppato una tecnica del corpo che si riflette nella natura: il mio unico archivio sono i corpi dei danzatori e si trasmette di generazion­e in generazion­e. In Africa, soprattutt­o del sud, abbiamo diverse giovani coreografe che si stanno affermando. Da noi è più complicato infrangere l’immagine della donna che deve essere moglie e madre. Ma il problema è mondiale: le autrici devono battersi per avere lo stesso stipendio dei loro colleghi».

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