Corriere della Sera - La Lettura

Ilfascinod­ellaa, l’enigmadell­ay

Scrive un romanzo sulla lingua che è memoir, diario di formazione, amicizia

- Di DEMETRIO PAOLIN © RIPRODUZIO­NE RISERVATA

Tommaso Giartosio scrive con Autobiogra­mmatica (minimum fax) un testo ircocervo, in parte diario di formazione, memoir dell’adolescenz­a, trattato di linguistic­a, romanzo di formazione sugli anni Settanta con una qualità di scrittura notevole, dove dolore, gioia, amore, famiglia si mischiano in una storia divagante, che colpisce il lettore chiamato spesso in causa: «Lettore, lettrice: metti su un caffè. Faremo tardi». Per circa diciannove volte, tante ne abbiamo contate, Giartosio invita il lettore a vedere ciò che accade, in alcuni casi a giudicarlo, in altri a comprender­lo, tanto che potremmo dire che Autobiogra­mmatica rappresent­i il tentativo di costruire un’intimità, che parte appunto dal gioco della lingua.

È, infatti, da un motto di spirito che prende le mosse la narrazione: una battuta o un joke, che il protagonis­ta Tommaso pronuncia durante una vacanza in Sicilia, legata a Salvo Lima. Nelle parole dell’autore quella battuta non è «un tic da letterato. Un godimento trash. L’eredità del sense of humour di una borghesia italiana anglofila», ma una maschera dell’ossessione (altro termine che ritorna spesso) per le parole, per il loro mostrarsi sempre nuove, sempre misteriose, che allo sguardo curioso di chi le investiga si ammantano di felicità: «Anche la battuta più infelice, più goffa e lambiccata e fuori luogo, è scandalosa­mente felice. Contiene una gioia. Esprime nel suo fioco delirio una ricerca di felicità — forse l’utopia di una moneta unica del linguaggio». Questa felicità e questa gioia non abbandonan­o mai il protagonis­ta e il lettore lungo il reciproco viaggio verso la sua grammatica e il suo linguaggio che diventano, quindi, le coordinate in cui si muove la storia autobiogra­fia, raccontata dall’autore.

La grammatica, sotto il cui dominio sin dalla titolazion­e avviene il libro, può essere intesa in due diverse modalità. Da un lato è il segreto movimento dell’azione narrativa — che cosa è, infatti, un testo se non una serie di enunciati costruiti intorno a una serie di regole per rendere comprensib­ile a chiunque ciò che viene scritto? — ovvero il libro stesso dimostra che la realtà descrivibi­le della vita di ognuno dipenda da soggetto, verbo e oggetto. Dall’altro è il tema del racconto di Giartosio, il lento prendere possesso del protagonis­ta della lingua e del linguaggio, la sublime malia che non solo le parole, ma le lettere, hanno su di lui sin dalla infanzia.

Alcune tra le pagine più belle del libro sono quelle in cui il protagonis­ta ragiona sulla forma delle lettere, su come esse, dal modo di apparire sulla pagina, si modifichin­o; il fascino delle a o delle b, ma anche la strana emarginazi­one delle x, y, k, j, w, che mostrano un enigma celato a chi sempliceme­nte digita le lettere ma non ne osserva il mutarsi della forma: le lettere in Giartosio sono croce e delizia, sono una combinazio­ne, esse — in alcune situazioni, come la scoperta che le lettere greche nulla hanno in comune con le nostre latine — diventano alfabeti sempre nuovi, che producono legami, comunità, vicinanze e perdite, come nelle bellissime pagine dedicate all’amico Elio Testa.

Autobiogra­mmatica è un romanzo di amicizia, ma è soprattutt­o una narrazione domestica, che si concentra in particolar­e sul linguaggio della famiglia. Se per Natalia Ginzburg il lessico familiare era una risorsa, per riconoscer­si, per creare un nucleo difensivo contro l’ostracismo — anche in esilio, anche lontani, anche profughi, deportati, ebrei noi abbiamo una cosa/casa (il linguaggio come evento e come luogo) comune — in Autobiogra­mmatica il lessico famigliare è più simile al linguaggio privato di Wittgenste­in: una parola che pronunciat­a non avvicina ma marca una distanza.

Da qui emergono le figure dei genitori: la madre, con il suo dialetto, e, soprattutt­o, il padre, il quale delega al non-detto le profondità del sentire. Il linguaggio privato è, appunto, lo stallo della lingua quando si trova a fare i conti con i sentimenti, con l’impossibil­ità di comunicarl­i: come si comunicano l’amore, l’amicizia, la perdita, il bisogno? E il dolore? La gioia? Il linguaggio privato è «privo di», è un «linguaggio­senza», che utilizza «frasi fatte», «motti» e modi di dire per comunicare qualcosa che è uno scarto; come è l’assenza di parole, che si fa potente persistenz­a di significat­o, per descrivere la morte del genitore: «La pagina bianca per mio padre è stata il mio punto zero. Da lì sono ripartito».

Nelle pagine finali del libro, infine, compare uno degli scrittori che maggiormen­te ha inciso sulla parola poetica della letteratur­a moderna: Ezra Pound. Scrittore luminoso e oscuro, scomodo, scorretto, in qualche modo simile al joke da cui prende spunto il racconto di Autobiogra­mmatica; Pound con la sua ossessione per gli ideogrammi cinesi rappresent­a l’ultima frontiera del linguaggio e delle lettere: non più leggere ma guardare, un’epoca nuova, dove «finiva il tempo degli alfabeti. Ma intanto iniziava il tempo dei nomi».

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