Corriere della Sera - La Lettura
Un Veneto all’asciutto
Ginevra Lamberti sposta una geografia riconoscibile in una dimensione distopica, segnata da temperature folli e penuria d’acqua: l’emergenza ambientale che già intravediamo. C’è un mistero, certo. Ma verrà sciolto
La prima indicazione — come quelle che accompagneranno ogni capitolo — è chiara e straniante: «Luglio. Valle Scura. 55°». Il mondo è troppo caldo e di quello di prima, nella Valle Scura, si hanno solo vaghi ricordi. La quotidianità in cui sopravvivono gli abitanti del territorio spopolato è la sussistenza e in questo scenario, in un ambulatorio dismesso, incontriamo Dalia, otto anni, ricoverata per un misterioso incidente, che passa le giornate con altri due bambini. Si apre così Il pozzo vale più del tempo, quarto avvincente romanzo di Ginevra Lamberti ambientato in un indefinito futuro, non troppo lontano, dove se la terra è bruciata, la società è andata a pezzi.
Non è chiaro nell’insieme come il mondo sia scomparso ma è una sospensione che rende tutto più affascinante: il versante distopico è implicito, ne intuiamo soltanto gli effetti nelle relazioni e nella vita materiale anche da dettagli illuminanti. Si tratta di una scelta narrativa che lascia spazio con successo ad altro, a inquietudini ancestrali che sottostanno a come i sopravvissuti si organizzano in diversi momenti del libro: tra chi offre solidarietà, chi provoca violenza, chi cerca solitudine. Tutte situazioni che Dalia, bimba con «gli occhi gialli» che ha perso l’olfatto per il trauma, attraversa per quanto incerta della sua strada.
I due poli simbolici della vita nella Valle Scura, segnata dalla carenza d’acqua e dalla ricerca di medicinali nella lontana Città del Santo (Padova), sono il malvagio Boscarato, contadino armato con trattore, unico a trovare ancora benzina e con mire di controllo territoriale, e in positivo Fioranna, ex maestra elementare che accoglierà dopo il ricovero Dalia, rimasta orfana, grazie a cui scopre che «i libri erano oggetti parlanti». Alla morte della maestra, Dalia diciottenne decide di salire dalla Valle Scura alla Foresta, che sta in alto e della quale sente parlare, dove un’altra piccola comunità si è insediata seguendo il rabdomante Vittorio.
È nato così il Villaggio dei Pozzi, teatro della seconda e terza e ultima parte del libro, immagine di una nascente nuova società dove l’acqua non manca, le armi sono vietate e si delinea un rapporto diverso con la natura perché «la foresta era il compaesano con cui toccava scendere a continui compromessi».
Dalia si integra rapidamente nel nuovo gruppo: assiste appena arrivata il morente Vittorio, fondatore del villaggio di cui terrà la casa e di cui, inconsciamente, sarà una nuova incarnazione per un ulteriore passo simbolico e di crescita della comunità. La protagonista diventa assistente del rude macellaio Biagio, assieme al quale squarta selvaggina, scoiattoli e lepri, e dama di compagnia sui generis di Orsola, ricca signora scappata dalla «città di pietra sull’acqua» (Venezia) in un albergo abbandonato dove vive da sola. Entrambe sono figure chiave, specchio riuscito della coppia di personaggi negativo-positivo della Valle Oscura, ma da inserire in una coralità molto più ampia di personaggi che l’autrice orchestra e caratterizza perfettamente, come con maestria incastra i piani temporali tra i tanti capitoli.
Le vicende, raccontate da un narratore onnisciente dallo stile netto e poetico, diverso dalle opere precedenti, hanno un buon ritmo e se ci sono segnali di continuità, dal territorio trasfigurato, il Veneto, alla voglia di raccontarsi tra personaggi per sopravvivere — «Le storie non finiscono fino a che non finiamo anche noi» — è notevole l’originalità della storia che si lega con italiani, da Nina dei lupi (Marsilio, 2011) di Alessandro Bertante al recente Prima della rivolta (Nottetempo, 2023) di Michele Turazzi, e luci straniere, da Agota Kristof a Cormac McCarthy.
In questo nuovo nucleo di società, comunque non un Eden ma speranzoso, cominciano a sparire i bambini, forse per pedofilia, forse per cannibalismo. Un episodio a cui il libro, come fosse una ricostruzione, allude fin dall’incipit: «Prima di stabilire di chi sia stata la colpa, bisogna considerare che la malinconia è nata nella stanza dei bambini». La scomparsa dei bambini è infatti quella del futuro di cui Dalia, dall’infanzia tormentata, aveva fin dall’inizio «malinconia».
Un futuro che Dalia non ha avuto per sé ma che, nel finale dove rompe l’«incessante torpore ovattato» in cui ha vissuto sciogliendo il mistero, lascia ai bambini dopo di lei.