Corriere della Sera - La Lettura
La famiglia infelice somiglia a sé stessa
La spagnola Sara Mesa immagina un capofamiglia che organizza in modo sistematico la vita della moglie, dei tre figli e della nipote che vive con loro. Ha appeso un ritratto di Gandhi, pare votato all’altruismo. Naturalmente qualcosa non va...
Un conto è preservare l’intimità, un altro covare segreti: «I segreti non sono mai una buona cosa». Così via il lucchetto dal diario; basta nascondersi in camera a leggere fumetti; niente conciliaboli al buio. «D’ora in poi, trascorreremo il pomeriggio insieme in soggiorno. Minimo due ore ogni pomeriggio, dalle sei alle otto...» impone il padre con una affabilità che ha qualcosa di artificioso, di stonato.
Si prova da subito un senso di disagio, quasi di oppressione, mettendo piede nella casa de La famiglia, quinto romanzo (il terzo tradotto in Italia) di Sara Mesa. Con la seconda persona singolare, la scrittrice spagnola invita il lettore dentro l’abitazione — il corridoio come centro geografico e frontiera, le stanze sui due lati — nella prima, onirica pagina che funziona da premessa: «Guarda con attenzione, ma non dire niente. Solo guarda e impara». Dentro quell’appartamento ci sono Laura e Damián, sempre chiamati Madre e Padre, tre figli (il primogenito che ha lo stesso nome del genitore, poi Rosa e Aquilino) e una nipote rimasta orfana (Martina detta Martinita), adottata dalla famiglia. Dietro le parole che Padre ripete — collaborazione, partecipazione, generosità, calma — si intuisce lo stridore di una contraddizione, il peso di un’oscurità, l’inferno silenzioso e ordinato a cui conduce la strada delle buone intenzioni educative. Lo stile è quello che i lettori dei romanzi precedenti di Sara Mesa, in particolare Un amore, conoscono: laconico, spogliato di ogni orpello, capace di far emergere dal grigio dell’incomunicabilità, della manipolazione in cui la famiglia è immersa, i meccanismi di controllo che ne governano i rapporti. quale i bambini diventano adulti. Il racconto si muove avanti e indietro nel tempo, indagando in questo modo le cause e le conseguenze del fallimento di quello che il Padre — figura centrale fino all’ultimo capitolo dove in qualche modo rivela le ambiguità e gli inganni in cui è stato sempre immerso — chiama il Progetto. La famiglia per lui è quello: i figli servono alla sua costruzione. «Pensa se non ne facessimo — dice alla moglie subito dopo il matrimonio — pur essendo sposati e con tutte le carte in regola, non saremmo una famiglia, saremmo soltanto una coppia, due persone senza legami di sangue, sterili e inutili». Peccato che il Progetto sia fondato su un terreno franoso sigillato dalla menzogna: Padre dice di essere un avvocato, ma trascorre le sue giornate nello studio di casa o in giro a raccogliere fondi per conto di imprecisate organizzazioni di volontariato.
Dietro la facciata impeccabile, apparentemente costruita su valori come altruismo, senso della giustizia, sobrio buon gusto e cultura, dall’alto della sua autoproclamata superiorità morale, con il ritratto di Gandhi appeso in salotto, Padre cerca di dirigere le esistenze di moglie e figli nascondendo dietro i discorsi di buon senso la sua natura dittatoriale, il pugno di ferro dentro il guanto di velluto. La prima vittima è la madre, acquiescente e infelice fin dalla prima gravidanza con conseguente depressione post partum, curata da uno psichiatra che ascolta soltanto la versione del marito: «Per il bene del Progetto lei doveva superare quel periodaccio. Perché, non appena si fosse ripresa, avrebbe dovuto fare un altro figlio. E un altro e un altro». Lei tace e acconsente anche perché quando si sono conosciuti «le sembrava un uomo integro, intelligente, di sani principi e con una promettente carriera davanti». Bastava per decidere di sposarlo, in un’epoca in cui «il valore di una donna veniva stimato in funzione dell’uomo che la sceglieva».
I tre figli e la nipote sono molto diversi tra loro, ma tutti ugualmente feriti dall’ambiguità paterna, tutti destinati a rendersi conto troppo tardi della differenza tra ciò che immaginano sia il mondo e ciò che effettivamente è. Diventeranno qualcosa di molto diverso rispetto al modello che il Padre aveva in mente per loro. Certo, dalle catene della famiglia ci si può anche liberare, ma i segni (Cicatrice èil titolo di un altro romanzo di Mesa, edito da Bompiani) rimangono impressi come marchi.
L’autrice è brava a raccontare i vari personaggi da più punti di vista: come si vedono, come li vedono gli altri, come sono realmente. Centellina dettagli e informazioni coltivando, a ogni parola, l’ambivalenza che circonda i suoi personaggi e l’inquietudine in cui immerge il lettore. Riduce al minimo i riferimenti ai luoghi in cui si svolgono i fatti e al periodo storico in cui si collocano, lasciandogli il compito di ricavarli da allusioni e dettagli. Mesa affolla la scena di personaggi minori, alcuni abbastanza delineati come lo zio Oscar, simpatico e spiritoso, che, con la sua vitalità sgangherata funge da contraltare, non necessariamente positivo, di Padre. O come la compagna di università della figlia Rosa, che riemerge dopo anni dal passato mettendola in discussione; o l’uomo che la nipote Martina, ormai adulta, conosce all’aeroporto; o ancora i vicini di casa a cui la scrittrice affida il compito di raccontare com’è andata a finire per Padre e Madre. Mesa denuda la scena — le scene — con una scrittura tesa che espone la minaccia del quotidiano senza sociologismi e intrattiene il lettore lasciandogli, alla fine del libro, il desiderio di saperne di più.