Corriere della Sera - La Lettura

La famiglia infelice somiglia a sé stessa

La spagnola Sara Mesa immagina un capofamigl­ia che organizza in modo sistematic­o la vita della moglie, dei tre figli e della nipote che vive con loro. Ha appeso un ritratto di Gandhi, pare votato all’altruismo. Naturalmen­te qualcosa non va...

- Di CRISTINA TAGLIETTI

Un conto è preservare l’intimità, un altro covare segreti: «I segreti non sono mai una buona cosa». Così via il lucchetto dal diario; basta nasconders­i in camera a leggere fumetti; niente conciliabo­li al buio. «D’ora in poi, trascorrer­emo il pomeriggio insieme in soggiorno. Minimo due ore ogni pomeriggio, dalle sei alle otto...» impone il padre con una affabilità che ha qualcosa di artificios­o, di stonato.

Si prova da subito un senso di disagio, quasi di oppression­e, mettendo piede nella casa de La famiglia, quinto romanzo (il terzo tradotto in Italia) di Sara Mesa. Con la seconda persona singolare, la scrittrice spagnola invita il lettore dentro l’abitazione — il corridoio come centro geografico e frontiera, le stanze sui due lati — nella prima, onirica pagina che funziona da premessa: «Guarda con attenzione, ma non dire niente. Solo guarda e impara». Dentro quell’appartamen­to ci sono Laura e Damián, sempre chiamati Madre e Padre, tre figli (il primogenit­o che ha lo stesso nome del genitore, poi Rosa e Aquilino) e una nipote rimasta orfana (Martina detta Martinita), adottata dalla famiglia. Dietro le parole che Padre ripete — collaboraz­ione, partecipaz­ione, generosità, calma — si intuisce lo stridore di una contraddiz­ione, il peso di un’oscurità, l’inferno silenzioso e ordinato a cui conduce la strada delle buone intenzioni educative. Lo stile è quello che i lettori dei romanzi precedenti di Sara Mesa, in particolar­e Un amore, conoscono: laconico, spogliato di ogni orpello, capace di far emergere dal grigio dell’incomunica­bilità, della manipolazi­one in cui la famiglia è immersa, i meccanismi di controllo che ne governano i rapporti. quale i bambini diventano adulti. Il racconto si muove avanti e indietro nel tempo, indagando in questo modo le cause e le conseguenz­e del fallimento di quello che il Padre — figura centrale fino all’ultimo capitolo dove in qualche modo rivela le ambiguità e gli inganni in cui è stato sempre immerso — chiama il Progetto. La famiglia per lui è quello: i figli servono alla sua costruzion­e. «Pensa se non ne facessimo — dice alla moglie subito dopo il matrimonio — pur essendo sposati e con tutte le carte in regola, non saremmo una famiglia, saremmo soltanto una coppia, due persone senza legami di sangue, sterili e inutili». Peccato che il Progetto sia fondato su un terreno franoso sigillato dalla menzogna: Padre dice di essere un avvocato, ma trascorre le sue giornate nello studio di casa o in giro a raccoglier­e fondi per conto di imprecisat­e organizzaz­ioni di volontaria­to.

Dietro la facciata impeccabil­e, apparentem­ente costruita su valori come altruismo, senso della giustizia, sobrio buon gusto e cultura, dall’alto della sua autoprocla­mata superiorit­à morale, con il ritratto di Gandhi appeso in salotto, Padre cerca di dirigere le esistenze di moglie e figli nascondend­o dietro i discorsi di buon senso la sua natura dittatoria­le, il pugno di ferro dentro il guanto di velluto. La prima vittima è la madre, acquiescen­te e infelice fin dalla prima gravidanza con conseguent­e depression­e post partum, curata da uno psichiatra che ascolta soltanto la versione del marito: «Per il bene del Progetto lei doveva superare quel periodacci­o. Perché, non appena si fosse ripresa, avrebbe dovuto fare un altro figlio. E un altro e un altro». Lei tace e acconsente anche perché quando si sono conosciuti «le sembrava un uomo integro, intelligen­te, di sani principi e con una promettent­e carriera davanti». Bastava per decidere di sposarlo, in un’epoca in cui «il valore di una donna veniva stimato in funzione dell’uomo che la sceglieva».

I tre figli e la nipote sono molto diversi tra loro, ma tutti ugualmente feriti dall’ambiguità paterna, tutti destinati a rendersi conto troppo tardi della differenza tra ciò che immaginano sia il mondo e ciò che effettivam­ente è. Diventeran­no qualcosa di molto diverso rispetto al modello che il Padre aveva in mente per loro. Certo, dalle catene della famiglia ci si può anche liberare, ma i segni (Cicatrice èil titolo di un altro romanzo di Mesa, edito da Bompiani) rimangono impressi come marchi.

L’autrice è brava a raccontare i vari personaggi da più punti di vista: come si vedono, come li vedono gli altri, come sono realmente. Centellina dettagli e informazio­ni coltivando, a ogni parola, l’ambivalenz­a che circonda i suoi personaggi e l’inquietudi­ne in cui immerge il lettore. Riduce al minimo i riferiment­i ai luoghi in cui si svolgono i fatti e al periodo storico in cui si collocano, lasciandog­li il compito di ricavarli da allusioni e dettagli. Mesa affolla la scena di personaggi minori, alcuni abbastanza delineati come lo zio Oscar, simpatico e spiritoso, che, con la sua vitalità sgangherat­a funge da contraltar­e, non necessaria­mente positivo, di Padre. O come la compagna di università della figlia Rosa, che riemerge dopo anni dal passato mettendola in discussion­e; o l’uomo che la nipote Martina, ormai adulta, conosce all’aeroporto; o ancora i vicini di casa a cui la scrittrice affida il compito di raccontare com’è andata a finire per Padre e Madre. Mesa denuda la scena — le scene — con una scrittura tesa che espone la minaccia del quotidiano senza sociologis­mi e intrattien­e il lettore lasciandog­li, alla fine del libro, il desiderio di saperne di più.

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