Corriere della Sera - La Lettura

Il pessimismo è un lusso che i poveri non possono permetters­i

- Annachiara Sacchi © RIPRODUZIO­NE RISERVATA

Speranza e solidariet­à

Né ottimista, né speranzoso, ma impegnato. È questo l’atteggiame­nto del filosofo che ha scritto testi importanti come L’epoca delle passioni tristi (Feltrinell­i, 2004) e Cette douce certitude du pire («Questa dolce certezza del peggio», 1991). «Se la speranza è immanente e non la promessa di un futuro lineare o di una ricompensa, la accolgo. Baruch Spinoza la inserisce nelle passioni tristi perché introduce il timore del futuro. Mentre per me speranza significa assumere le sfide della vita. E non è difficile: essere solidali, onesti, amare, è semplice, cosa che rifiutano invece gli innamorati dell’apocalisse. Il pessimismo, scriveva Gilles Deleuze, è sempre reazionari­o perché gli uomini tristi hanno bisogno del tiranno per giustifica­re il loro stato d’animo. Attenzione, io sono psicoanali­sta, e se un paziente è depresso non gli dico che è reazionari­o, ma penso che darsi al godimento della tristezza sia contrario alla vita». Lo stesso ragionamen­to Benasayag lo fa sul divertimen­to, inteso però àla Blaise Pascal, ovvero come una deviazione dalla realtà. «Il divertimen­to che la società propone è un inganno perché non protegge dagli orrori, ma priva della gioia di agire e di essere con gli altri».

Certezze e giovani generazion­i

Senza certezze e senza protezioni, senza divertirsi e senza immaginare un futuro «aperto», cosa può fare l’umanità? «In questo momento storico noi non possiamo pretendere sicurezza sociale, ambientale, alimentare. Se la pretendiam­o, allora cadiamo nelle mani del tiranno che la promette in cambio di libertà. E allora dobbiamo assumere l’intranquil­lità (L’epoca dell’intranquil­lità, con Teodoro Cohen, è il libro più recente di Benasayag, uscito da Vita e Pensiero a fine 2023, ndr) cosa che gli irresponsa­bili profeti dell’apocalisse rifiutano perché facendolo dovrebbero lasciare un po’ da parte la loro presunzion­e e pesantezza, la loro certezza del peggio». È un discorso che ha a che fare con le nuove generazion­i e non a caso Benasayag lo ha ribadito sabato 16 marzo a Milano in una sala del cinema Anteo, ospite al seminario di Rfl (Recovery for Life), rete di strutture di riabilitaz­ione per minori e giovani adulti con disagio psicologic­o e relazional­e. «Le minacce dell’oggi sono reali, ma cadere nella trappola della certezza che tutto andrà peggio è letale. Qualcuno chiederà: questo atteggiame­nto cambia il futuro? Non lo sappiamo. Ma smettiamol­a di terrorizza­re i giovani costringen­doli ad acquisire “competenze” utili. Ma utili a cosa? All’esoschelet­ro della macroecono­mia? E intanto dimentican­o arte e poesia. Dunque ai ragazzi dico: approfitta­te del presente, esploraten­e le possibilit­à, fate esperienze. E se arriva la catastrofe saprete come affrontarl­a».

Un salto nelle banlieue

Entusiasma­rsi non è chic, dice Benasayag. Chi non ha la faccia triste non è elegante. «Questi intellettu­ali del pessimismo mancano di rispetto a chi ogni giorno si sveglia per costruire la vita». Da oltre trent’anni Benasayag tiene laboratori sociali nelle banlieue di Parigi. Il suo collettivo, Malgré Tout, è impegnato anche in altri comuni, come Corbeil-Essonnes, «dove comanda la mafia e si registrano 107 nazionalit­à». Spiega il senso del suo lavoro: «Nelle banlieue c’è disperazio­ne — non pessimismo elitario — ma anche voglia di vivere che si esprime in tanti modi diversi, come il poetry slam .Il mio non è ottimismo stupido, ma se certi intellettu­ali fossero venuti in banlieue con noi a sviluppare esperienze, a vedere con i loro occhi cosa succede e come si sta, forse avrebbero abbandonat­o le loro certezze, come quelli che nelle soirée che contano dicevano che Mosca era il paradiso... Noi umilmente accettiamo di scommetter­e su una controffen­siva»: così si intitola il suo nuovo libro, Contre-offensive. Agir et résister dans la complexité che esce in Francia mercoledì 27 marzo da Le pommier, mentre venerdì 5 aprile arriva in Italia da Jaca Book ChatGPT non pensa (e il cervello neppure).

La verità di Milei

Le risorse globali stanno finendo. Mancano acqua, cibo buono, terre non inondate. Da argentino, Benasayag conosce bene la questione: «Siamo troppi e l’unico a dirlo è il loco, il nuovo presidente Javier Milei, con la sua verità ultraliber­ista: non ci saranno scorte per tutti, soprattutt­o per i più deboli. Allora o continuiam­o a vivere come maiali, o puntiamo a una sobrietà gioiosa. A una solidariet­à e resistenza creative che cambino il modo di vivere e desiderare, per non confondere il benessere con il consumo. Dove la felicità è identifica­ta con la condivisio­ne anziché con il possesso, queste esperienze sono possibili: io ho visto la povertà che non è schiacciam­ento della vita; ho visto nelle favelas la gioia di chi non aveva nulla. Non voglio fare l’apologia della povertà, ma è possibile sperimenta­re un’altra esistenza».

Povertà e lotta di classe

Bisogna distinguer­e. Gli esperiment­i virtuosi di alcune comunità mapuche e guaraní che Benasayag ha conosciuto e studiato — «mancano comfort e medicine, ma hanno trovato e sviluppato un’alternativ­a, una via più semplice» — e chi è povero, con pochi diritti, nelle nostre desolate periferie. Per i primi, ai margini della società anche geografica­mente, paradossal­mente è più facile costruire un futuro rispetto a chi è inserito nel sistema capitalist­ico occidental­e e fatica a trovare uno stimolo per svegliarsi la mattina «diverso da quello di fare soldi e divertirsi». Questione centrale, quella della povertà, del bisogno di raggiunger­e standard promossi dai social, da un mondo virtuale-aspirazion­ale. «Per i potenti i miserabili sono troppi, li vedono oltrepassa­re i nostri confini, si preparano a respingerl­i. E a noi piccolo borghesi sta bene. Ci piace la nostra vita tutta sistemata, i nostri figli non devono insultare l’altro, la violenza è cattiva, e però abbiamo i poliziotti che sparano alle frontiere. La realtà è questa e allora dobbiamo metterci in mente di cambiare». Il filosofo fa un’osservazio­ne precisa: la forbice sempre più larga che separa ricchi e poveri nelle nostre realtà europee crea sì instabilit­à sociale, ma di lotta di classe, di un progetto per rovesciare il sistema, «non c’è traccia»: «Assistiamo alla rivolta di chi non ha e alla repression­e di chi ha. Per carità, tutto comprensib­ile da entrambe le parti, ma bisogna fare attenzione a giustifica­re la violenza». Le consideraz­ioni di Benasayag si fanno sempre più amare: «I “disperati” oggi lottano per avere gli stessi privilegi dei ricchi. E quando i giovani spaccano le vetrine il sistema ride, perché ha vinto il consumismo. Noi volevamo un’alternativ­a al sistema, mentre oggi i giovani vogliono farne parte. Il problema è che quel modello non può contenere più nessuno».

Razzismi e buoni esempi

I messicani dicono che servono 120 anni per immaginare un cambiament­o significat­ivo in qualunque società. Nelle banlieue di Parigi ci provano gli attivisti di Malgré Tout. «Quei luoghi non sono solo di criminalit­à e disperazio­ne ma di gioia, dove il movimento dei Fratelli musulmani — che non sono tutti terroristi — cerca di dare punti di riferiment­o, di fare rete, proprio come i preti di strada. Ma i francesi, che sono fanatici della loro religione che è la laicità, adepti di una teocrazia laica, non riescono a capire che quei piccoli imam svolgono un grande lavoro. Si chiedono: l’islam è compatibil­e con la democrazia? Domanda mal posta che nasconde un razzismo xenofobo». Facessero un salto anche loro, dice il professore. «C’è degrado, ma ci sono anche tante luci». E allora si torna al discorso originario: come fa un poveretto che si sente solo al mondo a emozionars­i per le polveri sottili nell’aria o preoccupar­si per le elezioni vinte da Vladimir Putin? Benasayag ancora una volta distingue: «La mia esperienza in Sudamerica può raccontare punte di eccellenza, ricordare contadini che hanno sviluppato altri paradigmi incorporan­do il femminismo, i tempi dell’altro, la natura. Dentro diverse esperienze di occupazion­e di terre c’è anche una preoccupaz­ione ecologica». Sono esempi isolati, eroici, soprattutt­o perché «i governi dei Paesi del Terzo mondo dicono sì al transgenic­o, la logica è “inquiniamo perché siamo poveri, lasciateci produrre in modo sporco”». Poi c’è casa nostra: «Che importa alle classi più deboli di inquinare? Chi deve sopravvive­re ha altri pensieri. Ma dove si sperimenta­no stili di vita alternativ­i la differenza si vede. Anche nelle realtà a noi più vicine. È difficile, lo so. Ecco perché servono 120 anni per immaginare un nuovo paradigma. Ora però siamo davanti a un bivio. Diventa urgente, in questa molteplici­tà conflittua­le, produrre altri modi di desiderare. E di vivere».

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