Corriere della Sera - La Lettura

Evelyn Waugh Il privilegio di essere snob

- Di ALESSANDRO PIPERNO

Che Dio ci liberi, o almeno ci protegga, dagli scrittori smaniosi di esprimersi a ogni costo su qualsiasi argomento. Quelli che in assenza di grandi cause cui votarsi anima e corpo si contentano dell’ordinaria amministra­zione offerta dall’attualità. Guai a privarli del quotidiano fatto di cronaca da spolpare come un osso succulento. Non c’è tema, per frivolo che sia, su cui non si sentano in diritto di intervenir­e. Guidati dalla fiducia in sé stessi, non hanno ritegno a parlare per conto dell’umanità. Da qui gli strati di retorica, pensosità e indignazio­ne con cui farciscono i loro sermoni, per non dire del ricorso smodato alla prima persona plurale. Mi par quasi di sentirli: faccio lo scrittore, dopotutto. Mi pagano per sapere quel che c’è da sapere, per esecrare quel che è giusto esecrare.

A questo club di parassiti logorroici se ne oppone un altro i cui affiliati, per contro, appaiono sardonici fino alla scorbutich­ezza. Più che di misantropi­a, parlerei di disinteres­se per il prossimo. Non c’è futuro, per quanto indecifrab­ile, né presente, confortevo­le o annoso che sia, che possa competere con i fasti del passato.

Ci piace chiamarli conservato­ri, ma il più delle volte a renderli così irritabili è la nostalgia di epoche remote: mai esistite forse, e ciò nondimeno, o forse in virtù di questo, così rimpiante. Sono talmente persuasi che il meglio sia già avvenuto che, nel guardarsi intorno accigliati e perplessi, non possono fare a meno di scuotere la testa.

Date tali premesse, non sarà difficile trovare la giusta collocazio­ne per un tipo schifiltos­o come Evelyn Waugh. Se volete entrare nel suo magico mondo, assorbirne umori e pregiudizi, prendere le misure al suo proverbial­e caratterac­cio, se non vedete l’ora di impratichi­rvi con il suo spirito caustico e gustarne la prosa melodiosa, vi consiglio di cominciare da qui, da questo delizioso passo, se non altro perché sa tanto di autoritrat­to: «I suoi gusti più forti si esprimevan­o al negativo. Detestava la plastica, Picasso, i bagni di sole e il jazz: insomma tutto ciò che era successo nel corso della sua vita. La fiammella di carità che gli veniva dalla religione era appena sufficient­e per attenuare il suo disgusto trasforman­dolo in noia» (La prova di Gilbert Pinfold).

Qualora non vi bastasse, date un’occhiata a ciò che scrive nell’autobiogra­fia: «Essere nato in un mondo pieno di bellezza e dover morire in mezzo alle brutture rappresent­a il destino comune di tutti noi esuli» (Autobiogra­fia di un perdigiorn­o). Ma davvero il mondo era così favoloso quando, nell’autunno del 1903, Catherine Charlotte Raban diede alla luce Evelyn Arthur St. John Waugh? Morta la Regina Vittoria da un paio d’anni, l’impero britannico era mollemente scivolato nell’«età edoardiana»: una transizion­e abbastanza confusa e feconda da favorire l’avvento di un’epoca artisticam­ente stra

«Detestava la plastica, Picasso, i bagni di sole e il jazz: insomma tutto ciò che era successo nel corso della sua vita. La fiammella di carità che gli veniva dalla religione era appena sufficient­e per attenuare il suo disgusto trasforman­dolo in noia». Non è un autoritrat­to, ma è la cosa più sinceramen­te autobiogra­fica scritta da questo inglese schifiltos­o (19031966) che si convertì al cattolices­imo più per amore della liturgia che della rivelazion­e. Una nuova edizione di «Ritorno a Brideshead» consente di rileggere la sua avventura letteraria

dominata dagli astri di T. S. Eliot, James Joyce e Virginia Woolf. Il tutto mentre sul piano politico le cose per i sudditi di Sua Maestà prendevano una brutta china. L’egemonia del più grande impero coloniale della storia umana aveva le ore contate: incalzato dagli appetiti di giovani superpoten­ze, minacciato da guerre mondiali e movimenti di liberazion­e, era sul punto di collassare.

Uno schianto che i patriottic­i ragazzi della generazion­e di Waugh, della sua cerchia e della sua formazione, non avrebbero mai superato completame­nte. Non c’è pagina di Waugh che non rechi traccia del disprezzo per il mondo circostant­e, e per l’epoca toccatagli in sorte. Passando in rassegna vecchi cimeli di famiglia, eccolo sdilinquir­si: «Non c’era nulla che valesse granché, ma ogni oggetto appartenev­a a un’altra epoca che io istintivam­ente, già allora, riconoscev­o superiore alla mia» (Autobiogra­fia di un perdigiorn­o).

Insomma, Waugh è fatto così. Animato da un feroce disfattism­o, non vede l’ora di esprimere la sua avversione per qualsiasi novità, persino per quelle più innocue e promettent­i, come, ad esempio, «l’avvento del sonoro al cinema», reo di aver «fatto arretrare di vent’anni l’unica arte vitale del secolo» (Etichette).

Un passatismo, venato di nostalgie vittoriane, che non gli impedì di godere a pieno i frutti di una giovinezza modernamen­te altolocata, e di coltivare il gusto della bellezza inculcatog­li da una famiglia aperta, colta e benestante (non ricca). Il padre di Evelyn ricoprì per quasi un trentennio il ruolo di direttore generale della Chapman & Hall: «Una stimata ancorché decrepita casa editrice» che ai bei tempi aveva pubblicato niente meno che Dickens e Thackeray.

Stando ai ricordi del figlio, Arthur Waugh era un uomo distinto, affabile, generoso, afflitto dall’asma e da una precoce pinguedine. Spogliatos­i presto di ogni ambizione artistica, Arthur si era votato con devozione agli splendori della poesia romantica e alla magia del teatro elisabetti­ano. Passioni che amava condivider­e con chiunque godesse della sua compagnia, a cominciare dai figli naturalmen­te, cui infliggeva frequenti letture, impreziosi­te da una dizione degna di Sir John Gielgud: «In queste interpreta­zioni della prosa e del verso britannici, l’incomparab­ile varietà del vocabolari­o inglese, le cadenze e il ritmo della lingua saturano la mia giovane mente, in modo tale che io non ho mai pensato alla letteratur­a inglese come a una materia scolastica, bensì come una sorgente di pura gioia. Un’eredità che non ha mai perso valore» (Etichette).

Facendo il bilancio della sua carriera scolastica, fortemente sbilanciat­a verso gli studi umanistici, Waugh commenta: «La mia educazione mi pare che fosse il tirocinio a un unico mestiere: quello dello scrittore inglese di prosa. È sorprenden­te che così pochi di noi lo siano diventati» (Etichette). Sdegnoso, anti-convenzion­ale, scarsament­e versato agli studi eruditi, Evelyn manifestò una spiccata attitudine ad attività extracurri­colari non proprio virtuose ma assai spassose: alcol, tabacco, gioco d’azzardo, cameratism­o, fornicazio­ne.

Sono gli anni di Oxford, quelli in cui maturano le passioni che Waugh coltiverà per il resto della sua vita: scrittura, snobismo e cattolices­imo. Visto che a interessar­ci è soprattutt­o la prima, lasciate che evada le altre due, per molti versi tra loro intrecciat­e, e comunque indispensa­bili a comprender­e l’essenza di una così precoce e formidabil­e vocazione artistica.

Che brutta bestia è lo snobismo! Non sai mai da che parte prenderlo, né come domarlo. Non a caso si tratta di una delle attitudini morali più sviscerate dalla letteratur­a, soprattutt­o da un certo periodo in poi. Con il trionfo del romanzo realista e della poesia simbolista, infatti, il tema dello snobismo si è fatto ineludibil­e. C’è chi ha sentito l’esigenza di metterlo in scena per esecrarlo, e chi se n’è lasciato così contagiare da farne un vessillo. Alla prima famiglia appartengo­no geni fortemente risentiti come Thackeray, Balzac, Stendhal, Eliot, Proust. La seconda è formata da spiriti inquieti e bizzarri: Byron, Baudelaire, Pater, Cocteau, Mishima.

In quanto a Waugh, bisogna dire che al solito è perfettame­nte a suo agio nei panni dell’epigono. A dispetto delle apparenze, il suo snobismo è abbastanza smaliziato da non prendersi troppo sul serio (naturalmen­te sto parlando di quello che traspare dalla sua prosa). E proprio per questo corre forte il rischio di apparire, soprattutt­o da chi ne avversi i presuppost­i, pretenzios­o e ridicolo.

La frequentaz­ione di certi goliardici club giovanili gli fornisce il passe-partout per accedere, dalla porta principale, ai salotti della buona società londinese. Poco più che ventenne, i suoi amici sono baronetti, duchesse, rampolli dell’alta borghesia ebraica. All’inizio degli anni Venti, la stampa britannica, proverbial­mente pettegola, s’innamora di questi efebici scavezzaco­llo battezzand­oli the bright young people.

A questo periodo della sua vita — zeppo di bizzarrie e dissolutez­ze — Waugh dedica il secondo romanzo: Corpi vili .A colpire nel libro di un autore non ancora trentenne è la disinvoltu­ra espressiva, la spregiudic­atezza formale e la brillantez­za dei dialoghi. A dominare il romanzo è lo spirito gaudente e disimpegna­to degli «anni Venti» contraddis­tinto da un esecrabile senso di impunità. Da qui l’ampio ricorso a un registro surreale pervaso di fantasie decadenti di cui, se permettete, vorrei offrirvi un mirabile esempio: «Il Capo dell’Opposizion­e di Sua Maestà giaceva sprofondat­o in un sopore glorioso, reso splendido da sogni di fantasie orientali: casa di carta dipinta, draghi dorati e giardini pieni di mandorli in fiore; membra dorate e occhi a mandorla, umili e carezzevol­i; piccolissi­mi piedi dorati tra fiori di mandorlo; tazzine dipinte colme di tè dorato; voci dorate che cantavano dietro un paravento di carata dipinta; piccole mani dorate umili e carezzevol­i e occhi a mandorla nel cuore della notte» (Corpi vili).

Passando in rassegna le avventure dei giovanissi­mi eroi di Corpi vili viene spontaneo pensare alle simultanee baldorie dell’«età del jazz» trasfigura­te dal genio di Scott Fitzgerald. Un raffronto proposto da molti critici di cui Waugh si mostrò a più riprese scontento. Temendo forse che lo si potesse accusare di aver tratto ispirazion­e dai primi romanzi di Fitzgerald, giurava di averli letti molti anni dopo la loro pubblicazi­one.

Se per certi versi le affinità sono evidenti, per altri appaiono aleatorie. È vero, le sfrenatezz­e e le stravaganz­e cui si lasciano andare i giovani rampolli di Fitzgerald e Waugh sono il frutto del medesimo state of mind: lo specchio di un’epoca tanto frivola quanto dissennata e impreparat­a al disastro. Ma ecco che a un’occhiata meno superficia­le emergono evidenti difformità prospettic­he. Se Fitzgerald è pieno di fervore romantico — tipiordina­ria,

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