Corriere della Sera - La Lettura
Ma quale abisso, la vita è fogna
A dieci anni dalla sua uscita negli Stati Uniti, viene tradotto in Italia il romanzo d’esordio di Ottessa Moshfegh. Dove, nell’orripilante deriva ottocentesca di un marinaio alcolizzato, già si stagliano alcuni tratti dei suoi lavori successivi
In un panorama come quello della narrativa americana contemporanea, che appare ormai lontano dai «Grandi Romanzi» e dalle possenti innovazioni formali degli anni Novanta e primi Zero, dominato com’è da scrittori sempre più usciti dai master in creative writing (e da ciò debitamente omologati), spicca con forza, per l’originalità della voce e per la varietà della produzione, la figura di Ottessa Moshfegh, bostoniana classe ’81, arrivata al grande pubblico con l’inusuale Il mio anno di riposo e oblio, e poi capace di sconcertare quello stesso pubblico con il morboso e truce Lapvona, pubblicato da Feltrinelli l’anno scorso.
Arriva ora in libreria, sempre per Feltrinelli, il romanzo d’esordio, o forse è meglio dire novella (144 pagine nella traduzione di Gioia Guerzoni) di Moshfegh, McGlue, e di nuovo i lettori troveranno di che stupirsi. Chi già conosce l’autrice potrebbe non sorprendersi troppo nel veder cominciare la vicenda con un bell’urto di vomito, visto che tra le ossessioni di Moshfegh ci sono i fluidi corporei di ogni tipo e la loro deliberata ostensione, ma di certo era da molto tempo che non si trovavano marinai ubriachi tra i protagonisti di romanzi. McGlue è infatti anche il nome del personaggio, che barcollando di ponte in ponte sulle navi di metà Ottocento, sempre in cerca di alcolici o di qualche collega disponibile ad appartarsi sottocoperta, un giorno si trova coinvolto in una storia di morti ammazzati. In effetti è accusato lui stesso dell’omicidio, e il morto era pure un suo amico, ma la sua memoria, da alcolista cronico qual è, è affidabile fino a un certo punto… Volendo trovare un paragone per la vicenda all’apparenza così inattuale scelta da Moshfegh per il suo debutto, viene in mente il videogioco capolavoro Disco Elysium ideato dall’estone Robert Kurvitz nel 2019 (anno del ritorno in paperback di McGlue, uscito originariamente nel 2014), che comincia con le medesime esatte promesse. Circostanza che potrebbe suggerire come l’inattualità apparente di Moshfegh sia in realtà il suo personale modo per vedersela con l’ipercontemporaneo.
Se si parla di narratori non solo inaffidabili, ma anche ubriachi, la mente non può che andare anche a Sotto il vulcano di Malcolm Lowry e al «poema ferroviario» Mosca-Petuški di Venedikt Erofeev, ma i loro protagonisti sono in fondo dei «buoni», risucchiati nell’abisso loro malgrado, mentre McGlue non è soltanto un alcolista all’ultimo stadio: è anche uno spregevole figuro, inqualificabile nei comportamenti, allegramente violento e a tratti pure crudele. Inoltre non cova più neanche uno straccio d’ambizione, d’idea di futuro: vuole soltanto bere ancora. Per di più, prima degli eventi che danno l’avvio al romanzo, ha bevuto così tanto che non solo non ricorda cosa sia accaduto a Johnson, il suo amico e forse amante morto ammazzato (davvero può averlo ucciso lui? E perché, poi?), ma anche a sé stesso. In generale. Chi è in realtà? Cosa ci fa su quella nave? Com’è stata la sua vita? Si chiama davvero così? Quali sono i suoi desideri profondi? Perché se ne vergogna? Presente, passato, sogno, allucinazione e dubbio si alternano nella sua testa danneggiata — letteralmente:
McGlue Traduzione di Gioia Guerzoni FELTRINELLI Pagine 144, 15 In libreria dal 26 marzo
L’autrice Ottessa Moshfegh (Boston, 1981) è figlia di padre iraniano e madre croata. Studia al Barnard College della Columbia University e poi si specializza alla Brown University (Providence, Rhode Island). McGlue èil romanzo d’esordio, uscito negli Usa nel 2014; il primo titolo pubblicato in Italia, da Mondadori nel 2017, è Eileen, che è stato selezionato per il National Book Critics Circle Award e per il Man Booker Prize e ha vinto il Pen/Hemingway Award (il film tratto dal libro arriva in Italia il 9 maggio). Da Feltrinelli invece sono usciti: Il mio anno di riposo e oblio (2019), La morte in mano (2020), Lapvona (2023) e i racconti Nostalgia di un altro mondo (2017) L’immagine Alex Tatarsky (New York, 1989), Sad Boys in Harpy Land (2023, performance): è una delle opere della Whitney Biennal 2024 in programma fino all’11 agosto al Whitney Museum di New York (Even Better Than the Real Thing è il titolo della 81ª edizione dedicata al legame tra arte e Intelligenza artificiale) non c’è solo l’alcol di mezzo, ma anche un incidente che potrebbe aver avuto conseguenze a livello cerebrale — fornendo a Moshfegh l’occasione per mostrare, fin dal suo primissimo lavoro, virtuosismi prosastici e strutturali mai fini a sé stessi, ma sempre volti a portarci fin nel profondo della testa del protagonista, da valida erede del modernismo. E in questo caso è pure una testa molto, molto malmessa, un po’ come quella del Benjy Compson de L’urlo e il furore di William Faulkner, altro riferimento evidente di Moshfegh.
Come per il trucido Medioevo di Lapvona, risulterebbe difficile parlare di romanzo storico, anche se l’ambientazione di McGlue si colloca in un periodo preciso. Anzi, è preciso pure l’anno: siamo nel 1851 e non appare casuale che si tratti dello stesso esatto anno in cui si svolge Moby-Dick, anche se difficilmente McGlue, che appare in fondo piuttosto scarso anche nelle proprie abilità marinaresche, sarebbe stato accettato nella ciurma del Pequod, per quanto adatto sul piano dell’oscurità di carattere. Le epoche passate di Moshfegh hanno sempre qualcosa di fantastico, di reinventato, anche se non è mai presente il sovrannaturale. Una reinvenzione che in qualche modo trascende anche il «brutto» riportato alla luce dai veristi, alla ricerca di una rappresentazione del mondo meno romanticizzata. Forse, volendo trovare il vero tratto comune nella produzione narrativa di Moshfegh, questo è l’estrema oscurità. Anzi, è possibile che «oscura» risulti definizione insufficiente per Moshfegh, né sarebbe appropriato un più grave «abissale», dato che nell’abisso c’è qualcosa di epico, di glorioso, tratti che l’autrice rifiuta con perizia. Portarci all’inferno non rientra tra i suoi obiettivi: lei vuole proprio farci vedere quanto fanno schifo le persone e il mondo in cui viviamo. Dall’altro lato sarebbe riduttivo parlare di letteratura scatologica. Vogliamo dire letteratura fognaria? Letteratura del putrido? Qualcosa del genere. E va bene così, direbbe McGlue, tanto l’unica cosa che davvero importa è che sia letteratura, e soprattutto arrivare in un modo o nell’altro alla prossima bevuta.