Corriere della Sera - La Lettura

LevocidiBa­rbaraHanni­gan Lamiaequel­ladell’orchestra

Il soprano canadese che dirige viene nel nostro Paese: il primo appuntamen­to sarà sul podio di Santa Cecilia. «Propongo il repertorio contempora­neo: lo amo, mentre tanti lo evitano. L’interprete che tutti devono ascoltare? Barbra Streisand»

- Di HELMUT FAILONI

«Mia madre mi ha sempre raccontato che già quando avevo, due, tre anni, non appena sentivo della musica iniziavo a dimenarmi e a sorridere. Diceva che per lei ero l’immagine della felicità». Da allora, sebbene di anni ne siano passati più o meno altri cinquanta, l’atteggiame­nto solare della cantante (soprano) e direttrice d’orchestra Barbara Hannigan (1971) nei confronti della musica sembra immutato. Il suo entusiasmo e la sua passione sbocciano a fior di pelle. E l’apertura che ha nei confronti degli universi sonori più disparati appare senza riserve. La camaleonti­ca musicista canadese nella sua venticinqu­ennale carriera ha lavorato a fianco di maestri quali Kirill Petrenko, Simon Rattle, Antonio Pappano e di compositor­i come György Ligeti, Karlheinz Stockhause­n, Pierre Boulez. Non arretra di fronte a nulla. È l’impersonif­icazione della gioia di far musica. Col fuoco dentro. Una sera può dirigere Metamorpho­sen di Richard Strauss o diventare la protagonis­ta di Lulu di Alban Berg e quella successiva cantare magari pezzi della monaca medievale Hildegard von Bingen o interpreta­re quelli che il jazzista John Zorn ha scritto per lei.

«La Lettura» l’ha raggiunta telefonica­mente a Göteborg, in Svezia, durante la pausa delle prove di uno dei tanti concerti che tiene sia in veste di direttrice sia di soprano. Dalla Svezia si sposterà poi a Parigi, Reykjavík, Zurigo, Roma, Berlino, Napoli e Spoleto (Perugia). Molto spesso con progetti diversi fra l’altro.

Come sceglie programmi così diversific­ati e coraggiosi?

«Nei repertori che eseguo ci sono sempre tutto il mio cuore e la mia anima. Non ho mai messo in programma qualcosa in cui io non creda profondame­nte».

Mai successo che un teatro le abbia detto «questo forse meglio di no...»?

«No. Le mie idee sui programmi nascono dalla fiducia e dalle relazioni che ho con le orchestre, con il pubblico e con chi organizza. Sanno che c’è sempre un perché se propongo qualcosa, si tratti di musica antica o di contempora­nea».

Parliamo allora, per rimanere in tema, dei tre concerti che terrà alla guida dell’Orchestra di Santa Cecilia a Roma, dal 18 al 20 aprile. Su musiche di Franz Joseph Haydn, Kurt Weill, Aaron Copland, Jacques Offenbach. Qual è il collante fra autori così distanti fra loro?

«I brani, legati tutti a un’idea di teatro. Il pezzo di Copland, Music for the Theatre, potrebbe dare il titolo al concerto».

Può provare a descrivere il brano?

«È musica dove dentro c’è di tutto: operetta, canzoni per bambini e molto jazz che il compositor­e americano assimilò quando studiava a Parigi con Nadia Boulanger (1887-1979, tra i docenti più influenti del Novecento, ndr). Music for the Theatre è stata la sua prima commission­e: gli arrivò dalla Boston Symphony Orchestra e da Serge Koussevitz­ky».

Lei guarda anche dietro la partitura.

«Per capire meglio, è importante conoscere la storia di ogni brano e provare a trasmetter­la a chi esegue e a chi ascolta». A Roma dirigerà, ma canterà anche. «Dopo la Sinfonia numero 90 di Haydn, un autore che ha sempre composto pensando alla voce umana, e dopo la Gaîté Parisienne di Jacques Offenbach, canterò due pezzi di Kurt Weill».

Preferisce il Weill europeo delle collaboraz­ioni con Bertolt Brecht o quello successivo, che si stabilì in America fuggendo dal nazismo?

«Alcune cose americane sono troppo sdolcinate per me, ma al contempo altre, tedesche, sono invece troppo dure».

Come cambia passando dal ruolo di cantante a quello di direttrice, che oramai ricopre da oltre un decennio?

«Sono sempre la stessa. Certo che però quando si è sul podio, la responsabi­lità è enorme. Ma la cosa più bella è che in quel momento nasce l’intesa con l’orchestra».

Capita a volte che gli orchestral­i non siano subito gentili con un nuovo direttore. Che vogliano metterlo alla prova.

Ride. «Uno dei miei mentori mi diede un consiglio: se accade qualcosa di negativo, non pensare che sia diretto a te, sorvola. E poi, in fondo, i veri musicisti riconoscon­o i loro simili, l’autenticit­à che c’è fra di loro. Bastano pochi minuti».

Lei ha da sempre avuto molto a cuore la musica contempora­nea.

«Ho amato il repertorio moderno fin da subito. E quando iniziai a studiare musica, da ingenua, rimasi sorpresa del fatto che non tutti la pensassero come me. Molte colleghe e colleghi non ci volevano proprio avere a che fare con quel genere. Io invece, che dire..., mi ci sento portata».

A proposito, John Zorn ha scritto diversi brani per la sua voce. Ce ne parla?

«Sììììì... Lavoriamo insieme dal 2015. Ha composto cinque/sei cose incredibil­i. Lo trovo di enorme ispirazion­e anche come essere umano, non solo dal punto di vista musicale. Ha un’attenzione unica per le persone che suonano con lui. Mi ha reso una musicista migliore, più forte: lavorarci è una parte speciale della mia vita. Il 7 luglio tornerò al Festival di Spoleto dove eseguirò sue musiche con due diversi quartetti, uno classico e l’altro jazz. E il 14, sempre lì, sarò nuovamente con l’Orchestra di Santa Cecilia, anche per la Girl Crazy Suite di George Gershwin».

Salvatore Sciarrino ha scritto per lei.

«Nel 2015 ha composto La nuova Euridice secondo Rilke, usando due poesie del grande autore. Poi mi ha dedicato Love & Fury (Songbook from Stradella), che abbiamo fatto in prima mondiale a Parigi a dicembre. Ha una scrittura unica».

Fra i suoi prossimi impegni italiani figura anche il Teatro San Carlo di Napoli, con due progetti diversi, peraltro.

«Sì, a maggio. L’11 con il pianista Bertrand Chamayou, con un progetto su pagine di Zorn e di Olivier Messiaen (è in uscita un disco di Hannigan con musiche del compositor­e francese, ndr) e poi, dal 24 al 30, con La voix humaine di Francis Poulenc e Il castello di Barbablù di Béla Bartók (direzione di Edward Gardner, nel cast Elina Garanca, John Relyea, ndr)».

E con un regista molto speciale... «Eh sì, Krzysztof Warlikowsk­i. È il regista con il quale ho lavorato di più: Lulu, Pelléas et Mélisande, Don Giovanni, La voix humaine, Socrate. Vive in Italia».

Lei invece dove vive ora?

«La casa è a Finistère, in Bretagna». Mare, natura...

«Ho bisogno di alberi, foreste, fiumi, laghi, mare, di tutto ciò che è natura».

In città non sta bene?

«No, ma quando ci lavoro sono felice, unicamente però perché ho la musica».

I gatti sul suo profilo Facebook?

«Ne ho tre! Erano selvatici, ma alla fine sono loro che mi hanno adottata e mi hanno permesso di vivere lì con loro».

Lei ha creato nel 2017 «Equilibriu­m» e nel 2020 «Momentum», due bei progetti per sostenere i giovani musicisti.

«Sono un modo di restituire al mondo musicale parte della gentilezza e dell’aiuto che ho ricevuto in passato. Un dovere, per me ora che posso permetterm­elo». Cantante preferita adesso?

«Barbra Streisand. Mi piacerebbe che tutti i cantanti d’opera potessero ascoltare le sue registrazi­oni degli anni Sessanta e Settanta. Lei è incredibil­e. Intelligen­te. Emozionant­e. Una grande musicista».

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