Corriere della Sera - La Lettura

LEI NON LO DICE A NESSUNO

Vanessa lavora in banca. Una volta un poliziotto le aveva spiegato che cosa fare — e che cosa non fare: reagire, ad esempio — in caso di rapina. Poi un giorno succede davvero e Vanessa si ritrova — ovvio... — in una brutta situazione

- Uno. di DEBORAH WILLIS

I piedi le fanno male, il livello di zucchero nel sangue è basso. Otto ore prima quei tacchi le erano parsi una buona idea. Vanessa sposta il peso da un piede all’altro, piega le caviglie.

C’è solo un cliente in banca, un signore anziano che sta depositand­o l’assegno della pensione. Le chiede quali sono i suoi piani per le vacanze, e lei risponde: «Niente di speciale. Solo io e il mio fidanzato quest’anno. Restiamo qui».

Non si è ancora abituata a dire «fidanzato» o a vedersi l’anello al dito — una fascia d’oro giallo con un diamante sopra, più tradiziona­le di quel che avrebbe scelto lei. Digita F2/Invio per un deposito e si trova a guardare l’anello, le unghie smaltate, la pelle secca. Sembra la mano di un’altra persona. Questa pietra, quell’uomo. Le sembra di star scampando a qualcosa.

Sta aggiornand­o il libretto del signore anziano, che le sta spiegando perché non userà mai la banca online, quando un giovane si avvicina allo sportello. Non lo aveva visto entrare, ma ora è così vicino che sente il cigolio delle sue scarpe bagnate, il suo respiro affannoso. Ha un berretto tirato sugli occhi, una sciarpa avvolta intorno alla bocca.

Reena e Jeff stanno chiacchier­ando dietro di lei, che sta per girarsi e dire: «Qualcuno di voi si può occupare di questo cliente?», con la voce passivo-aggressiva che riserva soprattutt­o a loro. Ma il ragazzo tira fuori dalla tasca un foglio piegato, lo apre e lo spiana sul bancone.

Lei consegna al signor Granger il suo libretto e dice: «Grazie, signor Granger», poi legge la nota, scritta in una grafia chiara, simmetrica e femminile.

Sono un piccolo imprendito­re che ha bisogno di contanti. Rimanga calma e tutto andrà bene.

Il ragazzo annuisce, come se avessero concordato qualcosa. Per lei è la prima rapina, ma sa cosa fare, è stata addestrata. Prenderà qualche banconota, la metterà nella borsa di lui, lo farà uscire, avviserà le autorità.

Come fosse sincronizz­ato, il ragazzo le porge una borsa di tela, di quelle che la gente porta al supermerca­to per evitare la plastica.

Il signore anziano è ancora a qualche passo di distanza, sta riponendo le banconote nel portafogli. Reena e Jeff sono ancora ignari. Vanessa tende la mano verso la borsa.

Poi succede qualcosa: il ragazzo tira fuori un coltello dalla tasca. Il coltello le ricorda i coltelli da cucina in acciaio che lei e Mike hanno messo nella lista di nozze.

Tagliano, affettano, sminuzzano, tranciano, disossano.

Lui la guarda dritto negli occhi, e forse per via del coltello che ha in mano, della paura sul suo volto, lei si sente come quando ci si innamora a una festa. Come quando la normale conversazi­one continua, il vortice della vita ci gira intorno, ma noi non riusciamo a staccare gli occhi l’uno dall’altro.

Due.

Lui sente il sudore scorrergli giù dalle ascelle, lungo l’interno delle braccia e uscire fuori dalle maniche. Si chiede se il sudore trasporti il suo Dna, se la polizia analizzerà le gocce sul pavimento e riuscirà a trovarlo. Sente la saliva riempirgli la bocca, deglutisce.

«Aspetti solo un attimo», dice la ragazza al bancone. Tutto in lei luccica: la maglietta, le unghie, i denti, il trucco. Fa male guardarla, guardare qualsiasi cosa là dentro, è così dannatamen­te luminoso. Avrebbe dovuto prendere gli occhiali da sole. E le telecamere? Il cappello e la sciarpa basteranno a nasconderl­o? Tutto è così nitido e chiaro: le luci che ronzano sopra la testa, le strisciate delle scarpe sul pavimento piastrella­to.

Stamattina si è svegliato come se fosse un giorno qualunque. Si è fatto la doccia, si è vestito, ha bevuto tre tazze di caffè. Solo quando si è rasato ha notato quanto gli tremassero le mani. Si è tagliato il labbro superiore.

«Non è veramente rubare», aveva detto Paula. «L’assicurazi­one copre tutto».

Non è come nei film, aveva continuato. Niente pistole, maschere, ostaggi. Entri normalment­e e ti limiti a dargli un biglietto.

Ma chissà poi cosa poteva succedere, aveva pensato guardando il sangue scorrere sulla pelle bagnata, una linea rosa attraverso la crema da barba. Allora era andato in cucina e aveva preso il coltello più affilato che avevano, quello che suo fratello gli aveva regalato per il matrimonio.

Tre.

Le banche vengono derubate ogni giorno, le era stato detto durante le esercitazi­oni per la gestione delle emergenze. Era venuto un poliziotto, quel pomeriggio la filiale era stata chiusa e avevano ipotizzato e provato ad affrontare diverse situazioni. «Il vostro obiettivo», aveva detto il poliziotto, «è far sì che tutto finisca in fretta. Non attirate l’attenzione su di voi».

Lei non era il tipo di persona che attira l’attenzione su di sé, quindi non sapeva perché il poliziotto — con i capelli biondi che rifletteva­no le luci al neon sopra di lui — l’aveva scelta per la dimostrazi­one. «Lei», aveva detto. «Come si chiama?».

Doveva mettersi al suo posto di cassiera mentre lui fingeva di essere sotto l’effetto di cocaina o metanfetam­ine o qualcos’altro, si agitava e urlava. Voglio i miei fottuti soldi! Lo aveva odiato, ma aveva fatto come le aveva detto: aveva infilato la card da dipendente nel distributo­re elettronic­o di contanti dietro il bancone, inserito il codice di prelievo di emergenza, prelevato cinquecent­o dollari e li aveva consegnati con calma.

«Perfetto», aveva detto l’ufficiale. «Sempliceme­nte perfetto».

Una delle altre cassiere le si era avvicinata e aveva sussurrato: «Quel poliziotto ha una cotta per te».

«Prendiamo sempre i colpevoli», aveva continuato l’ufficiale, lanciando uno sguardo alle due donne. «Il giorno dopo, di solito. Sappiamo chi sono questi ragazzi».

Era passato ad altri possibili scenari, ma ora lei pensava a lui in modo diverso, come a una persona, non a un poliziotto. Alla fine delle esercitazi­oni, lui le aveva dato un foglietto di carta su cui aveva scritto il suo nome e numero di telefono.

Difficile credere che fossero passati quattro anni. Che ora fosse l’uomo che le preparava la colazione, la faceva ridere, e il cui corpo — quando la stringeva al buio — la schiacciav­a in modo piacevole, impedendol­e quasi di respirare.

Quattro.

Banconote nuove da venti e da cinquanta escono dalla macchina e lei le mette nella borsa di tela. Sta per consegnarl­a sopra il bancone, concludere questa sgradevole faccenda, quando il cliente precedente, l’anziano signore, si gira verso di lei. «Buon Natale», dice. «Le auguro di passarlo felicement­e!».

Lei cerca di sorridere, ma ora il signore vede il coltello. «Ehi, cosa fa!», dice, con la voce che probabilme­nte usa quando i suoi nipoti si comportano male.

È allora che il ragazzo apre il cancellett­o del bancone e la afferra per il braccio così forte da lasciarle un livido

sulla pelle. La tira verso di sé, tenendo il coltello contro il suo ventre.

«Ok», dice dolcemente, e lei sente il cuore di lui batterle contro la schiena.

Vanno verso la porta. Lei tiene la borsa di tela con i soldi e lui tiene lei, le braccia intorno alla sua vita, come un fidanzato. Dal suo corpo emana un odore acre.

Escono. Lei vuole che lui prenda la borsa e la lasci andare, ma lui continua a tenerle il braccio intorno al corpo e vanno barcolland­o insieme verso un’auto in attesa. Lui apre la portiera dal lato guidatore, le fa cenno di salire. Un gesto quasi galante.

Il coltello le sfiora la pelle, perciò lei sale in macchina, passa sopra il cambio e si siede sul sedile del passeggero. Prova ad aprire la portiera, ma è bloccata.

«Non funziona». Lui sale accanto a lei. «È un catorcio».

È una macchina normale, una Honda, una versione più vecchia di quella di sua madre. Lui esce dal parcheggio e imbocca la strada. Guida velocement­e, il coltello ancora in mano.

Il cellulare. Lei cerca istintivam­ente la borsa, ma è rimasta nell’armadietto, nella stanza del personale. Insieme al telefono, al localizzat­ore Gps, alla funzione di chiamata d’emergenza.

Cerca di ricordare le esercitazi­oni, cerca di ricordare se il poliziotto — il suo maledetto fidanzato — ha detto qualcosa riguardo all’essere rapiti.

Rimani calma, lo immagina gridarle in faccia. Mantieni la calma per mantenerti in vita.

Nel suo cervello c’è un ronzio, ma quel che la mantiene calma è osservare. La plastica crepata del cruscotto, la polvere sui pomelli dell’aria condiziona­ta, spiccioli appiccicos­i dentro una tazza, un orologio digitale che lampeggia ed è un’ora indietro.

Lui si immette sull’autostrada.

«Dove stiamo andando?», chiede, ma sembra che lui non senta.

La sciarpa gli scivola giù e lei vede che ha un taglio sul mento. Sembra avere poco più di vent’anni. Ha una barba rada e disomogene­a sul viso arrossato e indossa una felpa blu con la cerniera, jeans e sneaker senza calze. Vede la sua caviglia pallida mentre schiaccia l’accelerato­re.

Si sente un suono metallico e insistente. Il ragazzo lascia il volante e guida con il ginocchio. Mette la mano in tasca e tira fuori il telefono.

«Ho detto che ti avrei chiamato io». Lancia uno sguardo a Vanessa, poi torna a guardare la strada. «No, è fatto. Tutto bene». Ha il tono stanco e irritato che hanno tutti quando tornano a casa in macchina dal lavoro. Lei potrebbe afferrare il telefono, ma poi?

«Prova a mettergli in bocca un po’ di ghiaccio», dice. «O quella Tachipirin­a per bambini».

Dal telefono proviene una voce concitata.

«Cosa esattament­e vuoi che faccia?», dice lui. «Cosa posso fare ora?».

Poi riaggancia, si rimette il telefono in tasca e quello riprende a suonare quasi subito. «Cristo!». Non risponde. Il suono è smorzato dalla sua coscia.

«Quanto ti serve?». Lei cerca di togliersi l’anello — troppo stretto — dal dito. «Guarda, prendi questo…». Il telefono riprende a suonare.

«Fammi scendere». Lei mette l’anello sul cruscotto. «Lasciami qui e…».

«Sta’ zitta», dice. «D’accordo? Vanessa, sta’ zitta e lasciami pensare».

Lei si volta verso la strada. Come fa a conoscere il suo nome?

Lui lascia il volante, si gira indietro, fruga nel sedile posteriore in cerca di qualcosa. Una corda? Una pistola? Una scatola di fazzoletti.

Gliela passa, è schiacciat­a. All’inizio lei non capisce. Poi, come in lontananza, sente dei singhiozzi e si rende conto di essere lei. Sta piangendo.

Cinque.

Questa mattina si è svegliata come se fosse un giorno qualunque. Ha fermato la sveglia due volte, poi ha fatto una doccia così calda da farle male. Sa che l’acqua bollente fa invecchiar­e prematuram­ente, ma le docce troppo calde sono un piacere a cui non riesce a rinunciare. Come si fa a sapere quando si incomincia a invecchiar­e, poi? Voleva chiederlo a Mike, fare una battuta, ma erano già in ritardo e lui serrava e rilassava la mascella accompagna­ndola al lavoro. Lei gli teneva la mano sul ginocchio.

Ora si asciuga il viso con il fazzoletto, poi lo schiaccia nel pugno. Il ragazzo esce dall’autostrada e prende una strada più piccola, poi un’altra ancora più piccola, quindi una stradina senza lampioni. La strada si restringe, diventa sterrata. Il ragazzo si ferma davanti a una casupola cadente e spegne il motore.

«Non muoverti», dice. Neanche lui si muove, sta sempliceme­nte seduto accanto a lei nella macchina ferma.

Un ginocchio gli trema. Lei pensa al suo anello di fidanzamen­to sul cruscotto dell’auto, a quanto è stato difficile tirarlo fuori dal dito. Pensa: non puoi cavartela così ,e deve averlo detto ad alta voce, perché il ragazzo annuisce.

«Sì», dice. «Lo so».

Sei.

Lui lo sa. Una volta aveva una fidanzata carina e guadagnava bene come manutentor­e di tetti. Poi la sua fidanzata era rimasta incinta e lui era scivolato dal bordo di un tetto a Rockland, fratturand­osi due vertebre lombari. Ora vivevano con un assegno di invalidità.

Ma avevano un progetto. Lo avevano ideato al buio, a letto, l’uno tra le braccia dell’altro. Per questo gli era sembrato buono. Paula aveva avuto l’idea di allevare cani leggendo una delle sue riviste. I Labradoodl­e, la razza più popolare degli ultimi anni. Paula era brava con gli animali, quando era bambina era andata in un campo

estivo dove c’erano dei cavalli. Avevano costruito i canili con il legno che lui aveva ricuperato in uno dei posti in cui aveva lavorato. Per iniziare avevano comprato due cani, ma ora avevano esaurito le possibilit­à di ottenere credito e avevano bisogno di altri soldi, per le spese del veterinari­o e la pubblicità. Ecco come era saltata fuori l’idea della banca. Era stata un’idea di lei, una cosa da fare una volta sola. L’avrebbero fatta, aveva detto, e poi dimenticat­a.

Ma invece non l’avrebbero dimenticat­a, ed era per questo che lui aveva acconsenti­to. Se lo sarebbero ricordato al buio, soli. Li avrebbe tenuti legati.

Guarda la donna, il suo viso bagnato, lucido, spaventato. Sul suo cartellino c’era scritto Vanessa. Portarla con sé era stato un errore, ma anche lasciarla sarebbe stato un errore. Lei era un errore. Capelli decolorati, collo lungo, portava una gonna e calze di nylon sulle gambe magre. Ha l’aria di una che soffre di allergie e mal di testa, una lamentosa. Non come Paula. Tiene la scatola di fazzoletti sulle ginocchia e continua a dire: «Per favore, per favore, per favore», come se pensasse che lui la ucciderà. Lui vuole solo che lei scompaia. Chiude gli occhi come faceva da bambino, quando pregava. Si chiede se debba insegnare a suo figlio a pregare, se è quel che un padre deve fare. Per favore, per favore, per favore, prega. Ma quando li riapre lei è ancora lì.

Sette.

La porta della casupola si apre e una ragazza con un bambino in braccio esce sul piccolo portico bagnato. Ha addosso una felpa con la scritta Acapulco e pantaloni di tuta grigi che sembrano coperti di peli di animali domestici. Fa rimbalzare il bambino sul fianco. Vanessa sente abbaiare dall’interno della casa. Immagina cosa Mike penserebbe di queste persone. Sono la ragione per cui faccio questo lavoro, direbbe.

Il ragazzo scende dalla macchina e fa cenno a Vanessa di seguirlo, poi le afferra il braccio per evitare che scappi. Lei scivola sui sedili, cercando di non far salire la gonna. Il terreno è fangoso e le scarpe sguazzano.

I capelli scuri della ragazza sono raccolti in uno chignon disordinat­o e il bambino succhia un ciuffo libero. La ragazza guarda Vanessa, poi sposta gli occhi scuri sul ragazzo, sul coltello, infine di nuovo su Vanessa. «Che cavolo...?», dice.

«Te lo spiego dopo». Tira Vanessa per il braccio. «Ora ho bisogno di sedermi».

Vanessa cerca di catturare lo sguardo della ragazza, di comunicare silenziosa­mente con lei, da donna a donna. Anche lei ha paura di lui? Le ha mai puntato il coltello alla gola? Ma la giovane donna mantiene lo sguardo fisso sul viso di lui.

«Stai scherzando?», dice. «Chi è questa persona?». «È la tizia al bancone. Come si dice…».

«La cassiera», dice Vanessa, e sembrano entrambi sorpresi che lei parli.

«A me sembra stia bene», dice il ragazzo indicando il bambino. «Giusto, amico mio? Non stai piangendo».

La ragazza lo guarda sbigottita. «Non sta bene. Ho l’impression­e che sia allergico al mio latte».

«Ho detto che mi sembra che ora stia bene». Il ragazzo supera la ragazza e il bambino, trascinand­o Vanessa dentro la casupola.

All’interno cani e cuccioli le saltano addosso, quattro, cinque? E lei sente il loro calore mentre le saltano sulle gambe. L’odore del pelo, di urina, del loro respiro.

«Non è allergico a te», dice lui, e per un attimo Vanessa pensa che stia parlando con lei. «Sei sua madre».

La casa sa di umido e di chiuso. Non ci sono quasi mobili: un letto con su una coperta di finta pelliccia. Una cucina minuscola, sul cui piano lui getta il coltello. Invece di un divano o un tavolo, c’è una cuccia accanto a un box per bambini.

«Non capisco». La ragazza li segue dentro. Il ciuffo di capelli che il bambino stava succhiando le rimane incollato sulla guancia e sembra una macchia di sangue. “Non capisco cosa sta succedendo, Travis».

«Mi sono spaventato, va bene? È stato un incidente». «Non è poi tanto difficile, no? Entri, metti il biglietto sul bancone, esci».

«Sì? Allora perché non l’hai fatto tu?».

La ragazza guarda il bambino tra le braccia e gli parla con voce dolce e infantile. «Che pasticcio ha fatto papà?».

«Nessun pasticcio». Le lancia la borsa di tela. «Ecco i soldi».

La ragazza mette il bambino nel box, afferra la borsa, guarda dentro e poi la lascia cadere a terra. «Solo che ora ha visto la nostra faccia. La nostra targa. Ora è qui. Nella. Nostra. Maledetta. Casa».

Vanessa si avvicina alla cucina.

«Calmati!». Il ragazzo si tiene la testa tra le mani. «Troveremo una soluzione».

«Una soluzione?».

La ragazza sta davanti a lui, i cani le scorrazzan­o intorno ai piedi. «Che cosa dovremmo fare? Darle una parte dei soldi? Rinchiuder­la in uno dei canili?».

«Basta, Paula. Cristo santo».

Il bambino inizia a piagnucola­re, la premessa di un pianto, e Vanessa lo prende in braccio come se fosse suo. È più pesante e più caldo del previsto, e odora di argilla, di latte e di medicinale.

Il bambino la guarda, poi apre la bocca per urlare: gli occhi chiusi, la pelle arrossata, ma fa una pausa prima di far uscire un qualche suono dalla bocca. E come se avesse dato un allarme silenzioso, i genitori si voltano verso di lui, verso Vanessa. La fissano e anche loro spalancano la bocca, come i cani ansimanti.

Vanessa segue i loro sguardi e guarda in basso. Sta ancora tenendo il bambino su un braccio e vede la fontanella sulla parte superiore della sua testa, la vede pulsare attraverso il minuscolo cranio. E nell’altra mano, come se fosse sempre stato lì, tiene il coltello.

Otto.

Perché l’ha portata qui? Aveva paura; non ne aveva l’intenzione. È solo perché lei era là, con il suo calore contro di lui sotto quelle luci troppo forti della banca. È solo per questo che non l’ha lasciata andare.

Aveva quell’anello al dito, quindi è sposata, probabilme­nte ha anche dei figli. Fa un passo verso di lei. «Ehi», le fa con la voce che usa per tranquilli­zzare i cani.

Lei inizia a piangere, silenziosa­mente come aveva fatto in macchina, e lui la guarda negli occhi, non più brillanti, senza trucco ormai. Il bambino ulula, i cani abbaiano, Paula urla dietro di loro.

Nove.

Poi succede questo: lei va verso la porta mentre il ragazzo le si avvicina, come se stesse inseguendo un animale selvatico. Lei arriva alla porta e gli passa il peso caldo del bambino straziato. Poi corre fuori, tenendo ancora il coltello. Corre lungo il ghiaione sconnesso con le scarpe che le fanno male. Quando raggiunge l’asfalto, lascia cadere il coltello.

Un camionista la intravede sulla scarpata dell’autostrada e pensa di averla sognata. Poi le luci del suo camion la intercetta­no di nuovo e capisce che non è un sogno: una donna con tacchi e gonna sta correndo a fianco dell’autostrada, ha il retro delle gambe sporco di fango. Le si ferma accanto, si china ad aprire la portiera dal lato del passeggero. «Ha bisogno di un passaggio?». Lei monta nella cabina del camion; all’interno c’è una chitarra, una busta aperta di erba, e tanti di quei contenitor­i di McDonald’s che non può che calpestarl­i come un bambino un mucchio di foglie. Si sistema sul sedile del camion, allaccia la cintura di sicurezza, si accoccola contro il finestrino. Lui dice: «Allora, cosa ti è successo?».

Poi è a casa e Mike la stringe a sé, le bacia le palpebre, i capelli. Lei lo abbraccia con forza, non lo lascerà mai andare. Lui la porta dalla polizia, lei compila una denuncia mentre beve cioccolata calda, poi passa vari minuti guardando i cristalli di zucchero sul fondo della tazza di polistirol­o.

Non racconta a nessuno di quel momento, quando aveva il coltello in mano — né alla polizia, né al suo fidanzato — ma è quel che ricorda più chiarament­e. Lo ricorda nei momenti privati e furiosi con Mike, dopo che sono sposati. Quando lui la afferra per i capelli o le tiene i polsi o la spinge contro un muro.

Anche di questo non parla con nessuno, chi le crederebbe? E poi lui non la picchia mai, non la soffoca, non prende mai un coltello dal cassetto della cucina.

Lei pensa: A volte vorrei che lo facesse.

E poi si ricorda di come guardava la propria mano come se non fosse sua, di come aveva paura, di come non ne avesse l’intenzione. Si ricorda di aver appoggiato la guancia sulla parte morbida e pulsante della testa del bambino, di averla sentita palpitare contro la sua pelle. Si ricorda che piangeva come piange suo marito ogni volta, al buio, prima che lei lo perdoni.

Deborah Willis (traduzione di Maria Sepa)

© DEBORAH WILLIS 2024

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