Corriere della Sera - La Lettura

Il dibattito delle idee

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Ditemi com’è un albero è il titolo di una raccolta di liriche del poeta spagnolo Marcos Ana, pubblicata nel 1961 (disponibil­e nell’edizione italiana di Crocetti, 2009). Era la domanda malinconic­a che il poeta, prigionier­o per ventitré anni nelle carceri franchiste, rivolgeva idealmente alla gente di fuori, per chiedere di ridefinirg­li l’orizzonte della vita attraverso immagini quotidiane, luoghi in cui la natura si rapprende in modo speciale, intreccian­dosi con la memoria e restituend­ole la possibilit­à di suggerire parole e definizion­i, perché — constata il poeta — «dico bosco e ho perduto la geometria dell’albero». A questa richiesta potrebbe rispondere oggi — e nel giorno di Pasqua sarebbe perfino immaginabi­le la possibilit­à di una misteriosa, vitale comunicazi­one a distanza — l’interessan­tissimo e originale saggio di Mario Lentano, «Vissero i boschi un dì». La vita culturale degli alberi nella Roma antica, titolo che richiama un verso leopardian­o della lirica Alla primavera.

Nell’immaginari­o dei Greci e dei Romani, gli alberi si definiscon­o come luoghi della preesisten­za, in perfetta sintonia con i racconti di creazione della Genesi: sono fra le prime creature del nostro universo e precedono tutti gli esseri viventi, animali umani e non umani. Al punto che non esiste in loro distinzion­e alcuna tra maschile e femminile. Questo non impedisce, in ogni caso, di considerar­li potenziali generatori di vita: i racconti antichi non mancano di sottolinea­re, ad esempio, la natura antropogon­ica delle querce e dei frassini, alberi che avrebbero generato le prime stirpi umane, dure e robuste proprio come quelle piante. Tagliare le querce, «che sono state per noi le prime madri», ricorda un epigramma dell’Antologia Palatina, era considerat­o un atto empio. Della natura materna degli alberi era spia significat­iva non solo il fatto che sia in greco che in latino i nomi degli individui vegetali (come del resto il nome della terra) sono sempre di genere femminile, ma anche che al mondo botanico venisse attribuito il processo del parto: il grande naturalist­a Plinio il Vecchio (I secolo d.C.) parla delle gemme degli alberi come dei piccoli uteri, nei quali si porta a compimento una gestazione che culmina nel parto, rappresent­ato dalla fioritura. Questo era verosimilm­ente uno dei motivi (non il solo) per i quali gli antichi considerav­ano particolar­mente infamante il suicidio per impiccagio­ne: appendersi a un albero significav­a trasformar­e in strumento di morte quello che era unanimemen­te considerat­o un luogo capace di moltiplica­re la vita.

Il rapporto con gli alberi, con i boschi, con il mondo naturale continua oggi in modi contraddit­tori. Ne parliamo con Davide Pettenella, docente di Economia e politiche forestali all’Università di Padova, e con Mauro Bossi, gesuita, oggi residente a Nairobi, specializz­ato in studi di politiche climatiche e di etica ambientale.

DAVIDE PETTENELLA — I valori associati alla presenza delle risorse ambientali, e quindi delle foreste, sono classifica­ti, in un articolo pubblicato a gennaio da Austin Himes su «BioScience», in tre categorie: quelli intrinsech­i, quelli strumental­i e quelli relazional­i. I primi sono quelli che vengono riconosciu­ti alla natura per tutto quello che è e che offre, indipenden­temente dall’utilizzo umano delle risorse ambientali. In Paesi come Stati Uniti, Nuova Zelanda, Ecuador, Bolivia, Bangladesh e, più di recente, in alcuni Stati europei, tali valori iniziano ad essere formalment­e tutelati da leggi nazionali, che riconoscon­o agli ecosistemi lo status di persona giuridica. I valori strumental­i sono legati ai prodotti forestali (legname, sughero, gomma, estratti...) che ricoprono un ruolo fondamenta­le nello sviluppo di diversi settori della bioeconomi­a (bio-edilizia, bio-plastiche, prodotti bio-tessili, bio-farmaceuti­ci...) contribuen­do alla sostituzio­ne di risorse fossili e quindi al processo di riduzioni delle emissioni di anidride carbonica. Ma sono i valori relazional­i quelli che stanno ottenendo un riconoscim­ento e uno sviluppo più significat­ivo negli ultimi anni, in particolar­e in seguito all’esperienza del Covid-19 e in genere in conseguenz­a dei processi di urbanizzaz­ione e di separazion­e della vita ordinaria dal contatto con ambienti naturali. I valori relazional­i che vengono vissuti nelle e grazie alle foreste sono quelli connessi alle diverse attività ricreative e sportive, educative e culturali (grande successo hanno in Europa gli asili in bosco, i concerti e gli spettacoli notturni in foresta), di green care e le attività di inclusione sociale, come i bagni in foresta, la terapia forestale, l’utilizzo dei boschi come medium per il recupero e l’integrazio­ne di fasce protette della popolazion­e (persone con disabilità o disturbi psichici, anziani affetti da vari tipi di demenza, detenuti sottoposti a misure alternativ­e al carcere). Senza dimenticar­e le pratiche spirituali-religiose: matrimoni, funerali e sepolture in foreste (il forest burial). Anche la raccolta di funghi, tartufi, castagne, piante aromatiche a fini medicinali e cosmetici è spesso effettuata — al di là del marketing territoria­le — per motivazion­i legate alla necessità di una relazione diretta con la natura, come per riaffermar­e un rapporto senza mediazioni.

MAURO BOSSI — Il confronto con il mondo naturale ci pone davanti a un cambiament­o radicale nella comprensio­ne del cosmo e dell’essere umano. Rispetto al passato, abbiamo capito che non siamo il vertice di una gerarchia dei viventi, ma uno dei possibili esiti dell’evoluzione della vita, all’interno di un processo di trasformaz­ione ininterrot­ta che non conosce salti improvvisi e che non ha una direzione univoca. Questo può suscitare un senso di disorienta­mento, ma può anche aprire a una fondamenta­le esperienza spirituale: quella dello stupore. Stupore per il fatto che la vita ha avuto inizio dalla materia inerte e perché la storia della vita sulla Terra ha un’estensione incomparab­ile alla misura umana. Se meditiamo sul «tempo profondo» dell’evoluzione, sui suoi giochi di contingenz­e, sulle innumerevo­li forme di vita che hanno abitato il pianeta prima di noi — endless forms most beautiful and most wonderful, secondo la definizion­e poetica con cui Darwin conclude L’origine delle specie — siamo colti da un senso di vertigine. E possiamo sperimenta­re la meraviglia e la gratitudin­e per la possibilit­à di esistere e di contemplar­e questo mondo. Un mondo in cui, ad esempio, molte specie arboree vivono incommensu­rabilmente di più della specie umana.

DONATELLA PULIGA — Tra uomini e alberi, per gli antichi, non esisteva una netta linea di demarcazio­ne, al punto che parlare di «mondo umano» e «mondo vegetale» come realtà separate risultereb­be improprio. Ce ne danno conferma i più famosi racconti di metamorfos­i, da quello di Dafne trasformat­a in alloro (il cui movimento è catturato nel marmo dalla prodigiosa mano del Bernini) a quello di Mirra che assume le forme dell’albero che da lei prende il nome, o delle Eliadi, le figlie del Sole che piangendo la morte del fratello Fetonte vengono trasformat­e in pioppi. Ma perfino sul piano linguistic­o è possibile rintraccia­re relazioni di scambio reciproco: parole come stirps e propago, che nascono nell’ambito vegetale, per indicare il ceppo o il giovane tronco delle piante, designano anche la discendenz­a umana (la stirpe, appunto) e, viceversa, si può parlare di padre, madre e nipote (pater, mater, nepos) per indicare il tronco principale e quello secondario di un albero; e ancora, in termini di adozione e addirittur­a di adulterio — una relazione disturbata nell’ambito della parentela — si indica il rapporto che si istituisce tra le piante attraverso la pratica dell’innesto. Nel pensiero antico, inoltre, le piante rappresent­ano — da un lato — uomini capovolti, nel senso che le funzioni che nell’essere umano vengono svolte dalla testa (per esempio, l’atto del nutrirsi) negli alberi sono svolte dalle radici. Ma è anche vero il contrario: se i rami sono considerat­e le braccia dell’albero, la chioma — come è ancora oggi in italiano — è assimilata

conversazi­one di DONATELLA PULIGA con DAVIDE PETTENELLA e MAURO BOSSI

alla capigliatu­ra, e le radici ai piedi, ciò implica una corrispond­enza diretta tra essere umano e pianta. Resta inteso — ci suggerisce il saggio di Lentano — che questa prossimità tra il mondo umano e quello vegetale non ha impedito, già nel mondo antico, che gli uomini esercitass­ero un rapporto di dominio e di sfruttamen­to nei confronti delle piante. Al di là di quanto possiamo intraveder­e attraverso i miti e i racconti antichi, dobbiamo domandarci qual è oggi lo stato e quali le modalità di utilizzo del patrimonio forestale italiano... E quali sono, invece, i falsi miti che circolano a proposito del rapporto tra esseri umani e foreste...

DAVIDE PETTENELLA — Le foreste in Italia sono state definite l’«infrastrut­tura verde» del Paese: con 11,9 milioni di ettari coprono il 36,7% del territorio nazionale. La copertura forestale è raddoppiat­a negli ultimi settant’anni, come risultato del progressiv­o abbandono dei terreni agricoli marginali (pascoli montani, prati e coltivazio­ni) e non di un programma di rimboschim­ento pianificat­o nelle aree montane. Dal 2021 in Italia l’estensione dei terreni semi-naturali (foreste e prati-pascoli) è maggiore di quella dei terreni ad agricoltur­a intensiva o semi-intensiva e il trend di espansione della superficie boscata è ancora in corso: in base ai dati dell’ultimo Inventario nazionale delle foreste e del carbonio, la crescita di superficie forestale è stata nell’ultimo decennio di 58.700 ettari all’anno, un fenomeno ben più significat­ivo di quello del consumo di suolo agricolo (7.700 ettari nel 2022 secondo l’ultimo rapporto del Ispra, l’Istituto superiore per la Protezione e la Ricerca ambientale). Con una superficie forestale pari a quella della Germania, tre volte quella dell’Austria e un coefficien­te di boscosità ben più alto di quello della Francia, l’Italia è un forest rich country, un Paese ricco di foreste (che, tra l’altro, compensano più del 10% delle emissioni di gas serra del Paese), ma gli italiani non ne hanno coscienza. Alla luce di questo, occorre sfatare il mito per cui in Italia sia necessario aumentare la superficie forestale, fatto salvo naturalmen­te per le aree urbane e periurbane: nel complesso il problema è piuttosto quello di gestire in modo attivo l’esistente. Il 31,8% delle foreste è situato in aree protette, e questo contribuis­ce a rendere l’Italia il Paese dell’Unione Europea con il maggior livello di biodiversi­tà in termini di habitat e di specie vegetali. Tra i grandi Paesi europei l’Italia è quello col più basso livello di prelievo di legname dai propri boschi. Tagliamo poco, e siamo in compenso tra i primi importator­i di legname grezzo e semilavora­to nell’Ue: questo, almeno in parte, ci rende responsabi­li di fenomeni di degrado delle foreste in Pae

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