Corriere della Sera - La Lettura
Sì, la Terra è davvero piatta
Il mondo si connette agli stessi social che rilanciano gli stessi gusti. Oscurati gli spunti eccentrici, tutto viene livellato: è la globalizzazione algoritmica
Nel mio libro Filterworld parlo di quei ristorantini che si trovano nelle città di tutto il mondo. Si riconoscono facilmente: hanno piastrelle bianche da metropolitana alle pareti, molte piante in vasi di ceramica, arredi rustici di recupero in legno, lampade sospese con lampadine a filamento. Il barista sa cosa sia un flat white e come versare il latte nel cappuccino. Nel menu ci sarà probabilmente il toast all’avocado. Questi locali generici hanno tutti lo stesso aspetto, che si trovino a Milano, Tokyo, Los Angeles o Bali (in Indonesia), e non perché gli sia stato imposto da qualche grosso marchio come Starbucks. E non hanno nulla a che fare con le tradizioni del luogo, come i bar italiani o i caffè francesi. Si somigliano perché i proprietari decidono di seguire un vago modello di ispirazione cosmopolita e millennial.
La globalizzazione sta ora avvenendo a una scala e a una velocità prima impensabili. I nostri gusti sono più legati ai social network che utilizziamo che al luogo in cui viviamo. Miliardi di persone si incontrano sugli stessi social network, come TikTok e Instagram, dove le loro preferenze e desideri si assomigliano sempre più. Penso al nostro tempo come a un’era di globalizzazione algoritmica, ovvero un’era in cui la globalizzazione avviene a livello individuale, accelerata dalle raccomandazioni algoritmiche delle piattaforme digitali che utilizziamo. I ristorantini generici sono il risultato di Instagram, che connette una comunità internazionale di proprietari di ristoranti e bar e gradualmente li guida ad adottare gli stessi simboli visivi. Le raccomandazioni che ci danno gli algoritmi — che siano su Instagram, Netflix, TikTok o Facebook — agiscono filtrando i contenuti internet per noi e decidendo con che cosa sia più probabile che noi interagiamo, sulla scorta dei nostri precedenti like e clic. I post che ottengono più interazioni vengono promossi ancora di più dagli algoritmi, in un ciclo che si autoalimenta: quel che è popolare diventa sempre più popolare e quel che è oscuro rimane nell’oscurità.
I nostri feed algoritmici ci hanno trasformati in consumatori passivi, più inclini a guardare o ascoltare quel che si trova in cima ai nostri feed piuttosto che a cercare di nostra iniziativa nuove fonti di contenuto. Guardiamo il programma che Netflix ci consiglia e permettiamo a Spotify di essere il nostro dj, generando una playlist infinita di musica mediocre.
In un certo senso, questo è comodo. Non dobbiamo più prendere decisioni per conto nostro o riflettere su quello che ci piace. Il messaggio del marketing della Silicon Valley è che gli algoritmi capiscono quel che ci interessa e ce lo servono, senza alcuno sforzo da parte nostra. Ma affidando il nostro gusto personale a queste macchine, perdiamo parte del significato e della specificità della cultura. È molto probabile che consumeremo solo quello che la maggior parte degli altri consuma, secondo i dati rilevati da tutti gli utenti di una piattaforma: i miliardi di esseri umani su TikTok. Questo rappresenta un cambiamento radicale rispetto
ai decenni precedenti, quando la cultura era plasmata dalle scelte fatte da esseri umani vicini a noi geograficamente, nel Paese e nella città in cui vivevamo.
Naturalmente, anche gli algoritmi sono programmati da esseri umani: gli ingegneri delle aziende tecnologiche. Ed essi non sono neutrali, ma promuovono scelte ideologiche orientate verso le azioni che meglio serviranno ai profitti delle aziende. Secondo la teorica della letteratura Gayatri Chakravorty Spivak (nata a Calcutta nel 1942, docente alla Columbia University di New York, ndr), «la globalizzazione avviene solo nel capitale e nei dati. Tutto il resto è gestione dei danni».
Le grandi aziende diffondono la propria infrastruttura — server, algoritmi e interfacce — in tutto il mondo e catturano il maggior numero possibile di dati, per poi commercializzarli in forma di pubblicità mirata. L’omogeneizzazione della cultura è una conseguenza della distribuzione e della mercificazione dei dati prodotti da gran parte dell’umanità. Non è necessariamente la peggiore conseguenza, ma è quella che sperimentiamo più spesso, e nelle attività che solitamente poniamo ai vertici della creatività umana: ascoltare musica, guardare un film, contemplare un’immagine.
Quando tutta la cultura viene distribuita attraverso canali digitali algoritmici, i creatori di cultura devono adattare il loro lavoro ai modelli stabiliti dalle piattaforme stesse. Se un artista non si conforma all’algoritmo, il suo lavoro viene ignorato, non riesce a trovare un pubblico e quindi non è sostenibile (particolarmente negli Stati Uniti, dove l’arte deve avere successo commerciale in una forma o nell’altra). In questo modo l’omogeneità viene ulteriormente imposta. Consumatori passivi incontrano creatori sottoposti a pressione. Le aziende tecnologiche vincono, tutti gli altri perdono.
La globalizzazione algoritmica è iniziata come fenomeno occidentale e si è formata nelle aziende occidentali. Meta, il grande innovatore e ora collettore di social media, è completamente americano e impone un modello americano di infinito accumulo e mercificazione a tutti i suoi utenti. Negli ultimi anni abbiamo però visto nascere Spotify, dalla Svezia, e TikTok, dalla cinese ByteDance. Alla fine la tecnologia può essere una forza politica grande quanto il nazionalismo. Mentre il governo degli Stati Uniti cerca di bandire TikTok, come hanno già fatto alcuni Paesi, molti utenti americani della piattaforma protestano contro un divieto che sarebbe un’ingerenza nei loro diritti: il diritto a consumare la stessa cultura di tutti gli altri. Nel filterworld, il mondo dei filtri algoritmici, non partecipare a un evento virale su internet equivale a scomparire dalla rete, una sorta di morte.
I ristorantini internazionali standardizzati sono dunque solo un segno premonitore di una più grande ondata di appiattimento causata dalle piattaforme digitali, i cui effetti sono già profondamente radicati. Il primo passo per combatterli è esserne coscienti, identificando le situazioni in cui i nostri gusti sono più influenzati dagli algoritmi che dal nostro giudizio, per poi scegliere se accettarli o meno.