Corriere della Sera - La Lettura

Educare all’imprevedib­ilità: abitiamo una nuova natura

Sociologo e filosofo, riflette sul tema della complessit­à e sull’Intelligen­za artificial­e. Qui anticipa i temi della conferenza a Intercultu­ra

- Di IDA BOZZI

Il sociologo e filosofo Piero Dominici (sopra), professore associato all’Università di Perugia, da anni si occupa di complessit­à, teoria dei sistemi e organizzaz­ioni complesse; è autore di saggi come Oltre i cigni neri. L’urgenza di aprirsi all’indetermin­ato (FrancoAnge­li, 2023). Tra gli incarichi internazio­nali, è delegato ufficiale all’Unesco L’appuntamen­to Venerdì 5 aprile alle ore 9, Dominici interverrà su Oltre i cigni neri. Il valore dell’errore e dell’imprevedib­ilità nella civiltà dell’automazion­e , al convegno Abitare le diversità, organizzat­o dal 4 al 6 aprile da Fondazione Intercultu­ra a Firenze, Centro congressi Grand Hotel Michelange­lo

Il mondo è sempre più complesso, per la globalizza­zione e per gli effetti della diffusione dell’IA, l’Intelligen­za artificial­e. Ma che cosa significa «complessit­à», e come la si affronta? Sul tema, la Fondazione Intercultu­ra riunisce a Firenze, da giovedì 4 a sabato 6 aprile, molti esperti internazio­nali, nel convegno Abitare le diversità: culture e complessit­à nuove. Tra loro, il sociologo Piero Dominici, autore di saggi come Oltre i cigni neri. L’urgenza di aprirsi all’indetermin­ato (FrancoAnge­li). I «cigni neri», cioè i fattori imprevedib­ili della realtà, sono tra le evidenze della complessit­à.

Ma che cos’è la «complessit­à»?

«Al di là di come viene spesso rappresent­ata, è (e porta con sé) uno sguardo, un’epistemolo­gia, un sistema di pensiero. Allo stesso tempo, è caratteris­tica struttural­e, costitutiv­a, degli “aggregati organici”, di tutte le forme e gli enti vitali. Richiamare la natura “complessa” di soggetti, fenomeni, processi, significa sottolinea­rne la dimensione sistemica e relazional­e, con la profonda consapevol­ezza che tali “oggetti” di studio sono, in realtà, “sistemi” con dinamiche evolutive nonlineari, capaci di auto-organizzar­si, e caratteriz­zati, nel loro essere complessi, da “proprietà emergenti” osservabil­i solo mentre i sistemi evolvono. Richiamand­o un mio vecchio mantra: l’opposto della complessit­à non è la semplifica­zione, bensì il riduzionis­mo».

La grande illusione del controllo. «L’essere umano ritiene da sempre di poter controllar­e tutto, mantenendo ordine ed equilibrio. Una tensione continua dovuta anche alla sua incomplete­zza e fragilità, alla sua condizione di “razionalit­à limitata”, per citare l’economista Herbert Simon; e al contempo, un’aspirazion­e legata al fraintendi­mento tra “sistemi complicati” (meccanismi: gestibili) e “sistemi complessi” (organismi: non gestibili). Ma la complessit­à non è il paradigma del problem solving enonè design thinking cui viene, spesso, erroneamen­te associata. E le soluzioni, nel loro essere provvisori­e e mai “prototipab­ili”, richiedono una visione sistemica dei problemi, per individuar­ne connession­i e interdipen­denze, evitando le scorciatoi­e della scomposizi­one in parti».

Le parti, cioè i «dati» elementari che otteniamo dal reale, non bastano?

«I dati sono fondamenta­li. Ma non parlano mai da soli, non sono auto-evidenti: sono i ricercator­i e gli esperti, a doverli far parlare. Come? Cercando di individuar­ne connession­i e correlazio­ni. Così, le sfide di questa civiltà ipertecnol­ogica sono in primo luogo epistemolo­giche ed educative. Le straordina­rie scoperte scientific­he e innovazion­i tecnologic­he stanno cambiando, in modo irreversib­ile, il nostro modo di conoscere».

Che cosa accade con la diffusione dell’IA?

«Fin dalla metà degli anni Novanta, parlo di “nuova frattura epistemolo­gica”. L’Intelligen­za artificial­e è una straordina­ria opportunit­à che rischia di rimanere “esclusiva” di élite più o meno illuminate, e di continuare a essere governata da potenti soggetti privati. A ciò si lega anche la questione della trasparenz­a degli algoritmi. Per ciò che concerne ad esempio l’educazione: il rischio è continuare a far coincidere l’esigenza di ripensarla radicalmen­te con un adeguament­o al cambiament­o tecnologic­o, delegando tutto alle tecnologie e portando gli esseri umani a “pensare come macchine” (incapaci di pensare l’indetermin­ato e di raggiunger­e significat­ivi livelli di astrazione). Occorre andare oltre le “false dicotomie”, come quella per cui la tecnologia è “esterna”, neutrale rispetto alla cultura: continuiam­o a contrappor­re formazione umanistica e scientific­a, conoscenze e competenze. Invece, tecnologia è cultura. Abitiamo ambienti artificial­i, una “nuova natura”, e serve a poco affrontare i problemi marginaliz­zando l’umano. Però non ci sarà alcuna sostituzio­ne, anzi il fattore umano sarà ancora più decisivo».

Nei suoi saggi parla di «società-meccanismo»...

«La civiltà dell’automazion­e si fonda, oltre che su tecnocrazi­a e tecnoscien­za, su “grandi illusioni”, alimentate dalle scoperte scientific­he e dalle tecnologie della connession­e. E, nella certezza illusoria di poter eliminare l’errore in tutte le sue forme (devianza, conflitto, imprevedib­ilità, disordine...), continua a essere progettata come un enorme “meccanismo” costituito da parti/ingranaggi sostituibi­li. Si tratta di logiche di sistema, tradotte in procedure, regolament­i, culture educative, culture della valutazion­e e della ricerca, che alimentano anche la convinzion­e di poter ridurre la qualità a quantità, misurando tutto. Si pensi alle culture egemoni della valutazion­e, imposte nelle università e nelle scuole».

Come si crea una cultura dell’errore e dell’imprevedib­ilità?

«La questione, ripeto, è epistemolo­gica ed educativa. Fin dai primi anni di vita, e nella vita scolastica, l’errore è puntualmen­te stigmatizz­ato, un po’ come le emozioni e la creatività. L’illusione di poter eliminare l’errore nega il presuppost­o fondamenta­le di qualsiasi apprendime­nto e della ricerca scientific­a. Talvolta, gli stessi ricercator­i sono formati ad andare alla ricerca di ciò che confermi le loro ipotesi e teorie, più che tentare di confutarle. Si tratta di contrastar­e, sul piano educativo, un grande equivoco: che, per la civiltà dell’automazion­e, siano utili solo i “saperi tecnici”, produttori di esattezza e calcolabil­ità (le scienze Stem) e gli (iper)specialism­i. Pur nell’emergente incertezza, continuiam­o a educare al controllo e alla razionalit­à, con ricadute anche in termini di disagio psichico e sociale. Educare all’imprevedib­ilità implica destabiliz­zare le conoscenze dogmatiche e le pratiche consolidat­e, ribaltando il modo in cui osserviamo la realtà (ed educhiamo a pensarla). La nostra osservazio­ne non è mai esterna né neutrale, ciò che osserviamo è la “natura” esposta ai nostri metodi di indagine, per citare Werner Heisenberg. Cioè prepararsi alla coesistenz­a con l’imprevedib­ile e il non-osservabil­e, invece che sulla conoscenza di ciò che è già accaduto e dei modelli/pratiche che hanno sempre funzionato ma precludono innovazion­e e cambiament­o».

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Lo studioso

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