Corriere della Sera - La Lettura
Ruanda Trent’anni fa il genocidio Ora il soft power
Nel 1994 nel Paese africano gli estremisti hutu uccisero 800 mila persone. La strage, a cui l’Onu non seppe opporsi, affondava le radici nell’eredità coloniale. Oggi Paul Kagame, leader dei Tutsi, al potere da 24 anni, gode del prestigio che gli deriva da
Trent’anni fa il Ruanda fu funestato da una tra le più grandi tragedie del XX secolo. Nel corso di soli cento giorni, non meno di 800 mila Tutsi e Hutu di tendenza moderata furono trucidati, non solo da miliziani hutu e membri delle Forze armate ruandesi (Far), ma anche da cittadini comuni. Sebbene presentato nei media del tempo come uno scontro «tribale» alimentato da odii ancestrali, il genocidio aveva cause storiche ben precise.
In epoca precoloniale, i termini «Hutu» e «Tutsi» non designavano identità etniche separate: i membri dei due gruppi parlavano la stessa lingua, praticavano la stessa religione e avevano convissuto sul medesimo territorio per secoli. Il modo migliore di concettualizzare Hutu e Tutsi è quello di vederli come due categorie economiche e politiche permeabili tra di loro: mentre i Tutsi (circa il 15% della popolazione) erano più strettamente associati alla pastorizia e alla sfera del governo, gli Hutu (circa l’85%) godevano di minori prerogative politiche e si dedicavano principalmente all’agricoltura. Su questa situazione vennero a impiantarsi la colonizzazione tedesca e poi, dopo la Prima guerra mondiale, quella belga. I privilegi inizialmente accordati ai Tutsi dai colonizzatori e l’influenza dell’etnografia dell’epoca (che li trasfigurò in conquistatori e dominatori naturali delle popolazioni autoctone) contribuirono a irrigidire e «razzializzare» i confini tra le due identità, che persero gli originari connotati di fluidità.
Il periodo antecedente al genocidio del 1994 fu contrassegnato da gravissime tensioni all’interno del Ruanda, che era nel frattempo passato nelle mani degli Hutu a seguito di un clamoroso voltafaccia da parte dei belgi alla vigilia dell’indipendenza nazionale (1962). Per un Paese ad altissima densità demografica e quasi interamente dipendente dall’export agricolo, il crollo del prezzo del caffè nel 1989 rappresentò una catastrofe. Si stima che, nel 1993, un terzo della popolazione ruandese sopravvivesse con meno di mille calorie al giorno.
La posizione dell’élite hutu che faceva capo a Juvénal Habyarimana (padre-padrone del Ruanda dal 1973) fu indebolita dall’attacco del Fronte patriottico ruandese (Fpr), organizzazione formata principalmente da rifugiati tutsi il cui diritto al ritorno in patria era sempre stato negato dai leader hutu del dopo-indipendenza. La guerra civile che fece seguito all’invasione dell’Fpr dall’Uganda si protrasse tra l’ottobre del 1990 e l’aprile del 1994. Nonostante l’assistenza tecnica di francesi e belgi, l’esercito di Habyarimana non riuscì mai a piegare l’Fpr, il cui leader, Paul Kagame, dette prova di notevole acume tattico
I successi militari dell’Fpr spinsero il partito di Habyarimana, l’Mrnd, e altre formazioni hutu a ricorrere all’arma della mobilitazione etnica. Nella propaganda del regime e dei partiti che si riconoscevano nell’ideologia suprematista nota come «Hutu Power», non erano solo gli «invasori» dell’Fpr a costituire una minaccia esistenziale, bensì l’intera popolazione tutsi.
All’inizio del 1994 il Ruanda si trovò sull’orlo del precipizio. Se avessero avuto successo, i negoziati di pace di Arusha — promossi dalla comunità internazionale e da uno sparuto, ma coraggioso, gruppo di rappresentanti hutu moderati — avrebbero forse cambiato il corso degli eventi e schiuso le porte a un governo di transi
zione aperto sia all’Fpr che ai partiti hutu disposti al compromesso. Così non fu, anche a causa delle manchevolezze dell’Onu. La Missione di assistenza delle Nazioni Unite per il Ruanda (Unamir) avrebbe avuto bisogno di almeno 5.500 caschi blu. Il generale canadese Roméo Dallaire, tuttavia, dovette accontentarsi di una forza di appena 2.500 uomini.
Nella notte del 6 aprile 1994 l’aereo presidenziale di Habyarimana venne abbattuto da un missile. Nelle ore successive, una giunta militare guidata dal colonnello Bagosora (che il «Guardian» definirà l’«Himmler ruandese») assunse il potere a Kigali e dette il via alle uccisioni su larga scala. Mentre squadroni della morte composti da membri della guardia presidenziale prendevano di mira i politici hutu moderati, le milizie giovanili dei partiti hutu estremisti allestivano posti di blocco alla scopo di intercettare ed eliminare i Tutsi presenti nella capitale. Nei giorni seguenti, i massacri dei Tutsi proseguirono nelle campagne. I pochi soldati dell’Unamir rimasti in Ruanda fecero del loro meglio per salvare il maggior numero possibile di vite umane. Ma anch’essi, nonostante l’eroismo di cui spesso dettero prova, finirono con l’essere travolti.
Mentre le potenze occidentali si distinguevano per la loro inazione e impotenza (la Francia fece persino di peggio, offrendo una via di fuga verso l’allora Zaire alla leadership del genocidio), la carneficina dei Tutsi si interruppe soltanto in luglio, quando le truppe di Kagame riuscirono, dopo tre mesi di duri combattimenti, a scacciare le Far dal Paese.
I soldati tutsi dell’Fpr, segnati dall’esperienza del conflitto e del genocidio, si abbandonarono a episodi di giustizia sommaria che, malauguratamente, coinvolsero anche migliaia di innocenti. Le stime delle vittime oscillano tra le 25 mila e le 100 mila — cifre impressionanti ma che certo non giustificano l’assurda tesi del «doppio genocidio» avanzata da alcuni critici dell’Fpr.
Esistono due narrazioni contrastanti sul Ruanda del dopo-genocidio. Nel corso dei trent’anni di governo dell’Fpr, il Ruanda ha conseguito alti tassi di crescita economica. Si tratta di un Paese sicuro che tutela i diritti della donna e che registra bassi indici di corruzione percepita.
D’altro canto, è innegabile che alla relativa stabilità non è corrisposto un progressivo allargamento delle libertà politiche. All’autoritarismo interno, inoltre, il presidente Kagame (in carica da 24 anni) ha unito uno spiccato avventurismo in politica estera. Anche se, rispetto all’epoca delle devastanti guerre del Congo (1996-1997; 1998-2003), Kagame non può più permettersi di fare e disfare a suo piacimento nella regione, il sostegno che il Ruanda continua a fornire a movimenti ribelli nel Congo orientale è fonte di preoccupazione nell’Africa dei grandi laghi.
In Occidente — soprattutto nel mondo anglosassone — prevale invece l’immagine più positiva del Ruanda, di cui si ammirano l’efficienza e la disponibilità a contribuire a svariate missioni di peacekeeping. Una recente dimostrazione del soft power ruandese è fornita dal progetto britannico che prevede il trasferimento forzato in Ruanda dei richiedenti asilo nel Regno Unito. Molto avversato dalle organizzazioni umanitarie in Gran Bretagna, lo strampalato piano di Londra viene invece visto a Kigali come un’occasione per accrescere ulteriormente il proprio peso diplomatico. C’è qualcosa di ironico nel fatto che un regime fondato in larga misura da rifugiati fornisca il proprio sostegno a quello che Amnesty International ha definito un «horror distopico» giocato sulla pelle dei richiedenti asilo.