Corriere della Sera - La Lettura
Cuba allo sbando Il popolo invoca cibo ed elettricità
L’isola è allo stremo e il regime ha scelto l’austerità. All’Avana sono venuti meno gli aiuti russi e venezuelani
La profonda crisi socioeconomica, in cui negli ultimi tre anni è precipitato vertiginosamente il regime cubano, ha radici antiche che risalgono alla fine della guerra fredda. Il nuovo corso impresso dall’allora leader sovietico, Mikhail Gorbaciov, e la conseguente implosione dell’Urss, hanno provocato una pesante crisi, frutto del crollo degli aiuti di Mosca e dell’inasprimento dell’embargo statunitense.
Una stagione che i cubani ricordano come il «periodo speciale», in cui i beni primari divengono introvabili, i consumi si contraggono, la disoccupazione dilaga, in un Paese che sembra essere finito in un vicolo cieco.
Lo stesso scenario è tornato a riproporsi, ma in forma più grave, a più di trent’anni di distanza. La crisi è esplosa a partire dall’annuncio del primo ministro Manuel Marrero Cruz che il costo del carburante avrebbe subito un aumento del 500%, a causa della sospensione delle tradizionali agevolazioni, che ha fatto impennare ulteriormente l’inflazione, già incontrollata, a oltre il 30%.
Il governo ha deciso, in nome del risparmio energetico, nel quadro di un bilancio pubblico ormai vicino al default, di spegnere due terzi dei lampioni del Paese, rincarando allo stesso tempo il prezzo delle sigarette, e soprattutto quello delle bombole di gas, indispensabili a garantire la sopravvivenza quotidiana a milioni di cubani. Il governo, per fare cassa, sta inoltre valutando l’opportunità di riformare o abolire la canasta basica, quel paniere alimentare che lo Stato assicura a ogni cittadino per la sua sussistenza, fatto di: riso, mais, fagioli e pane. A Cuba improvvisamente latte, uova, farina, e paradossalmente anche lo zucchero, cosa incredibile, visto che si tratta della prima coltivazione del Paese, sono divenuti merce rara, tanto che l’esecutivo si è convinto a lanciare un appello al Programma alimentare mondiale delle Nazioni Unite, come non aveva mai fatto dall’avvento della rivoluzione nel 1959.
Ma anche il sistema sanitario gratuito, orgoglio del regime cubano, non è più in grado di assicurare i minimali servizi di assistenza. Nelle farmacie e negli ospedali manca di tutto. La storica Farmacia Avanera, nella città vieja della capitale, è ormai un museo, in cui l’unica cosa che si può ammirare sono gli scaffali vuoti.
Anche la solidarietà degli antichi compagni di strada, Russia e Venezuela, è venuta meno. Mosca non è più disposta ad allargare i cordoni della borsa in prestiti che non saranno mai restituiti, mentre Caracas è in preda, ormai da anni, a una crisi senza fine, che non permette più di sostenere Cuba, come ai tempi gloriosi di Hugo Chávez.
A minare l’economia del Paese ha provveduto anche la pandemia del Covid-19, che ha azzerato i flussi turistici, la principale fonte di guadagno dell’isola. Il regime si è avvitato su sé stesso, nel vortice di una crisi economica, energetica, alimentare e sociale, che sembra apparire di difficile soluzione. L’88% dei cubani vive al di sotto della soglia di povertà, secondo i dati contenuti nel Rapporto sullo stato dei diritti sociali nell’isola, elaborato dall’Osservatorio cubano dei diritti umani, Ocdh, con sede a Madrid. Da questa terra dal «perenne futuro», come la definiva il poeta messicano Octavio Paz, fuggono non più solo i giovani, ma anche gli anziani che non riescono più a convivere con un presente diverso dal futuro che era stato promesso, come racconta lo scrittore Leonardo Padura Fuentes.
Le cifre fornite dal dipartimento di Protezione delle frontiere degli Stati Uniti stimano che tra l’ottobre e il novembre 2023 sono entrati negli Usa, in modo irregolare, più di 38 mila cubani, attraverso il confine messicano, dopo avere percorso la «rotta dei coyote», che dal Nicaragua attraversa l’America Centrale e tutto il Messico. Una sofferenza divenuta insopportabile, tanto che nelle settimane scorse la rabbia e la disperazione sono esplose a partire dal piccolo centro abitato di San Antonio de los Banos, per estendersi ad altre 25 città, capitale compresa, al grido di corriente y comida (elettricità e cibo), perché tenemos hambre (abbiamo fame).
Questa volta le forze di polizia, pur esercitando la consueta repressione, nell’arginare le proteste non sono ricorse, a differenza del passato, a processi sommari e a inutili violenze. Lo stesso presidente Miguel Díaz-Canel, con l’intento di gettare acqua sul fuoco, ha riconosciuto, in un messaggio sul suo account X, il malcontento dei cittadini «per la situazione del servizio elettrico e della distribuzione degli alimenti», senza però rinunciare alla obsoleta narrativa, che dietro ai nemici della rivoluzione ci sono le ingerenze nordamericane e la politica del bloqueo. A spingere i cubani in piazza non sono state, questa volta, la rete del dissenso politico, né i militanti dell’opposizione, quanto le decennali frustrazioni per la mancanza di futuro e la fame.
Cuba oggi non è più il baricentro d’America. Il mito s’è sbiadito. Il suo fascino s’è eclissato, in un immobilismo indifferente a ogni riforma.