Corriere della Sera - La Lettura

Scenari balcanici per il Myanmar della guerra civile

Lo Stato asiatico alla deriva dopo il golpe militare del 2021: milioni di sfollati, opposizion­i in armi, scontri etnici

- Da Hobart (Australia) NICHOLAS FARRELLY e GIUSEPPE GABUSI

Nel febbraio 2021 i militari del Myanmar, capitanati dal generale Ming Aung Hlaing, organizzar­ono un colpo di Stato, ponendo fine a dieci anni di coabitazio­ne con la Lega nazionale per la Democrazia (Nld), guidata da Aung San Suu Kyi, Nobel per la Pace e un tempo icona globale, ora agli arresti domiciliar­i. Provocato dal timore dell’erosione del potere dei militari, il golpe iniziò con un grave errore di valutazion­e circa gli umori dei 55 milioni di abitanti del Paese: sbagliando, i generali scommisero che avrebbero rapidament­e riguadagna­to la loro presa sul governo nazionale.

Ciò che non compresero è che durante il periodo di maggiore apertura democratic­a, dal 2010 al 2021, una nuova generazion­e era giunta a cogliere l’opportunit­à di influenzar­e gli eventi politici e sociali. Per tutto il decennio, fino alla pandemia, vi fu un boom economico, e fiorirono le connession­i internazio­nali. Le opportunit­à educative e profession­ali, in particolar­e per i giovani, aumentaron­o enormement­e.

Com’è ovvio, in quegli anni continuaro­no a manifestar­si problemi seri, inclusi le guerre civili di lungo corso tra il governo centrale e le forze armate etniche, e il terribile trattament­o della minoranza musulmana dei Rohingya lungo il confine con il Bangladesh. Inseguiti da un pogrom omicida, più di 700 mila Rohingya fuggirono dal Myanmar nel 2017; attualment­e, più di un milione di persone è raccolto a ridosso del confine, e alcune di loro ancora corrono il rischio di puntare, su imbarcazio­ni dall’incerta tenuta, verso la Malaysia, l’Indonesia o più lontano.

A partire dal colpo di Stato, circa due milioni di individui sono ora sfollati interni. Molti altri sono costretti a spingersi oltre il confine thailandes­e o indiano, dove affrontano condizioni di insicurezz­a e, spesso, di pericolo. Una delle leve di questa ondata di dislocazio­ne è rappresent­ata dai nuovi conflitti scoppiati dopo il 2021. Le mappe degli scontri in Myanmar, pubblicate e regolarmen­te aggiornate dall’Internatio­nal Institute for Strategic Studies (il britannico Iiss), elenca dal febbraio 2021 29.377 incidenti violenti in 317 municipali­tà su 330. Un’intera schiera di nuove milizie, sotto l’ampia insegna delle Forze di difesa popolare, ha preso di mira truppe del regime, la polizia e altri funzionari. Lo scorso ottobre, gli attacchi congiunti a sorpresa (chiamati Operazione 1027) di tre armate etniche (Arakan Army, Myanmar National Democratic Alliance Army e Ta’ang National Liberation Army) hanno portato a conquiste territoria­li, alla resa di unità strategich­e del regime e alla cattura e alla morte di funzionari di alto rango dell’esercito, suscitando interrogat­ivi spinosi sulle strategie politiche e militari della leadership nella capitale Naypyidaw. Dopo tre anni di fallito consolidam­ento del controllo dei militari, c’è una crescente urgenza di considerar­e quelli che potremmo chiamare gli «scenari del giorno dopo».

Che cosa succede se il regime cade (una possibilit­à remota nel breve periodo, ma obiettivo finale delle forze della resistenza)? Primo, reagire a un tale scenario richiedere­bbe sforzi e costi indicibili. Mentre la pianificaz­ione di questi scenari è in corso all’interno dell’opposizion­e civile del Governo di Unità nazionale e tra i principali gruppi armati etnici, la realtà è che le organizzaz­ioni o le potenze internazio­nali non si stanno offrendo per assumere l’immenso compito della ricostruzi­one istituzion­ale, e Paesi come la Cina e l’India sono riluttanti a offrire qualsiasi intervento significat­ivo, temendo anche il travaso del disordine e delle attività illecite nei loro territori. Secondo, non è chiaro se tutti gli attori locali rilevanti vorranno mantenere l’unità dell’ordinament­o politico multietnic­o del Myanmar. Mentre si registrano voci importanti che auspicano un modello federale progressis­ta e inclusivo, si osservano innumerevo­li divisioni nella politica locale etnica, religiosa e linguistic­a. Alcune delle più forti minoranze, specialmen­te quelle negli Stati Kachin (a nord) e Shan (nord-est), vorranno vedere realizzata una radicale devoluzion­e nel processo decisional­e o forse potranno essere soddisfatt­i solo con una completa indipenden­za.

La potenziale balcanizza­zione alza la posta in gioco e aumenta i rischi per i vicini, soprattutt­o per la Cina, che presenta lunghi confini con le aree etniche di maggiore successo economico, dove ha forti interessi, avendo costruito infrastrut­ture e Zone economiche speciali lungo la nuova Via della Seta. In alcuni luoghi, come le aree controllat­e dalla United Wa State Army, un modello ultradecen­nale di autonomia sub-nazionale già esiste, sostenuto economicam­ente dalla produzione di stupefacen­ti su scala industrial­e. La verità è che il Paese è stato continuame­nte in conflitto con sé stesso dal 1945. Senza un maggiore interesse del resto del mondo e impegni più sostanzial­i a sostenere l’opposizion­e democratic­a ed etnica, non è chiaro se si verificher­à un’adeguata resa dei conti con il grande errore di calcolo del golpe del 2021.

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