Corriere della Sera - La Lettura
I miti di Londra città del mondo
Uscirono lo stesso giorno il 45 giri dei Beatles «Love Me Do» e il film «Agente 007. Licenza di uccidere»: il 5 ottobre 1962 segnò l’inizio di una stagione che avrebbe rivoluzionato il costume, le arti, il pianeta. Ma la «Swinging London» vibra ancora
Il battesimo ufficiale è stato il 5 ottobre 1962, venerdì per i pignoli, quando sugli scaffali dei negozi di dischi arrivò il 45 giri dei Beatles Love Me Do (facciata B: P.S. I Love You) mentre nei cinema iniziava la sua vita Dr. No (in Italia uscì il 17 gennaio 1963 come Agente 007. Licenza di uccidere), dove un ex lattaio scozzese belloccio ma non certo famoso si presentava dicendo di chiamarsi «Bond... James Bond». Lo ricordano Michelangelo Iossa, scrittore e docente universitario, e Franco Dassisti, critico cinematografico radiofonico, nel loro Swinging 60s (Hoepli) dove con l’aiuto di un ricchissimo apparato iconografico (e con il contributo di alcuni amici esperti, Michela Gattermayer, Tiziana Cipelletti e Matteo Guarnaccia) ricostruiscono quel momento magico che partendo da Londra informò di sé mezzo mondo e tutta la gioventù.
Niente faceva pensare che quella canzone e quel film avrebbero conquistato il mondo, eppure il primo disco del semisconosciuto quartetto di Liverpool scalò prestissimo le classifiche e due mesi dopo era diciassettesimo nelle vendite, mentre un film pensato come un B movie («Accettai la parte perché ero abbastanza sicura che nessuno avrebbe visto il film», confessò poi Ursula Andress) in due settimane era programmato in duecento sale del Regno Unito.
Per arrivare però a quel fatidico 5 ottobre 1962 e al mito della Swinging London, Iossa e Dassisti spiegano che bisogna tornare indietro, all’immediato dopoguerra, fino alla Gran Bretagna di Winston Churchill, alla voglia di Londra di «ergersi a culla di rinascita» ripartendo dal più antico dei miti, quello di Olimpia e dello sport, assegnato alla capitale britannica proprio per il suo valore simbolico. E mentre il mondo celebrava i valori dell’olimpismo, i giovani che iniziavano a divorare i dischi provenienti dall’America si inventavano lo skiffle, una musica a metà tra il folk, lo swing e le atmosfere celtiche, facendo di necessità virtù e strimpellando su un’asse del bucato suonata con i ditali delle mamme sulle mani e trasformando una cassa da tè, un manico di scopa e una corda tesa in una tea-chest bass il cui suono grave ricordava il contrabbasso. Aggiungendo naturalthe mente una bella dose di entusiasmo, mentre sulle orme del «re dello skiffle» Lonnie Donegan trasformavano Liverpool (il porto dove si scaricano le merci dagli Stati Uniti, dischi compresi, e dove nel gennaio 1957 verrà inaugurato il Cavern Club che i fan dei Beatles conoscono bene) nella prima capitale del neonato rock inglese.
Ma c’è un altro pilastro su cui si costruirà la Swinging London ed è il ruolo centrale che avranno le art school nel liberare le energie e le fantasie dei giovani. Pensate per preparare chi doveva lavorare nelle industrie manifatturiere tessili, queste scuole d’arte entrarono a far parte alla fine degli anni Cinquanta di un ampio progetto governativo destinato ai figli della classe operaia per offrire loro la possibilità di continuare gli studi (e tenersi lontano dai guai). Diventate «una specie di Bauhaus popolare nei loro programmi all’avanguardia dei tempi» (scrive Matteo Guarnaccia), quelle scuole «insinuano nelle eccitabili menti dei tanti ragazzi che stanno trafficando con gli strumenti musicali l’idea romantica che chi fa musica non è solo un intrattenitore ma anche un artista». E a frequentare quelle classi e a seguire quest’idea ci saranno Keith Richards, Brain Eno, John Lennon, Eric Burdon, Pete Townshend, Eric Clapton, John Mayal, David Bowie, Charlie Watts, Freddy Mercury e Jimmy Page. E la lista non è finita.
Con la musica, sarà il cinema (e saranno i «giovani arrabbiati» del teatro) a cambiare le regole del gioco e a trasformare l’austera capitale britannica nel crogiolo di ogni novità. E insieme a loro la moda — con la minigonna di Mary Quant e le creazioni di Biba — a fare da apripista.
«In un fazzoletto di anni — scrive Iossa — Londra si trasforma nell’epicentro di ogni possibile idea, la roccia su cui costruire nuovi edifici culturali, l’ombelico del pianeta, la culla di ogni visione innovativa del mondo». Senza una precisa linea di tendenza o di sviluppo, senza che un settore prenda il sopravvento sull’altro, ma dove tutti — musicisti, artisti, stilisti, cineasti, anonimi hippie — contribuiscono a quella rivoluzione che la copertina di «Time» consacrerà di fronte al mondo intero nel numero del 15 aprile 1966, definendo Londra per la prima volta swinging, letteralmente «oscillante», cioè aperta alle influenze di tutto quello che c’era di nuovo e la faceva muovere. Un percorso che il libro segue passo passo, senza dimenticare né il regista Michelangelo Antonioni né gli scontri di Brighton tra Mods e Rockers, né Yoko Ono né Jimi Hendrix, né Melody Maker né Top of Pops, né Ossie Clark né David Bailey, né Twiggy né Nicholas Roeg.
La qualità principale di questo libro, infatti, è proprio la sua capacità di abbracciare quel mondo e quel periodo nella sua complessità e nelle sue contraddizioni, senza voler costruire una narrazione rigidamente consequenziale (se non nel passare degli anni) ma nel cercare di illuminarne tutti gli angoli, mescolando i mercatini rionali con gli studi di Abbey Road, i negozi di Carnaby Street con John Peel, «il dj più stimato del Regno Unito», la moda del taglio a caschetto e il Jack and Coke (il cocktail preferito dai Beatles: whiskey Jack Daniel’s, ghiaccio e Coca-Cola), senza nascondere gli eccessi spesso dissennati che misero la cultura rock (e i suoi giovani alfieri) contro l’establishment. Lasciandoti, alla fine del libro, con il piacere di avere ripercorso un periodo davvero magico (per chi c’era) e qualche rimpianto per chi non aveva potuto conoscerlo. Convinti, come scrivono gli autori, che quello spirito non si è dissolto: «Gli anni Venti del XXI secolo sembrano ancora profumare di Swinging London e riportano le lancette del rock ai favolosi anni Sessanta». Naturalmente vissuti all’ombra del Big Ben, perché Londra è come «una spugna che ciclicamente risucchia ogni goccia di