Corriere della Sera - La Lettura
L’architetto dell’aria fa viaggi impossibili
Un pernottamento all’aperto in una foresta, con la neve che scende sopra un letto imbottito di pelli; palazzi fatti di vuoto; una cattedrale di nebbia (che dà il titolo al libro). Ecco i mondi del belga Paul Willems: un po’ Borges, un po’ Buzzati
Pubblicato nel 1983, La cattedrale di nebbia di Paul Willems è un’opera bizzarra e sconcertante, composta di sei racconti che solo per banale approssimazione possiamo definire fantastici», seguiti da due saggi, sul leggere e sullo scrivere, che non creano un’eccessiva discontinuità, proseguendo a intrecciare fili di pensiero e figure della memoria già presenti nei testi narrativi. Fino al momento di aprire casualmente questo libretto, semplicemente attratto dal titolo e dal disegno in copertina, ignoravo totalmente il nome di Paul Willems, belga delle Fiandre ma scrittore in francese, nato a Edegem, in provincia di Anversa, nel 1912 e vissuto fino al 1997. Questa edizione italiana (Safarà) non aiuta molto il lettore, avara com’è di informazioni, ed è un peccato che a una buona idea editoriale non si accompagni un’adeguata introduzione.
Nella sua esiguità, infatti, La cattedrale di nebbia è un capolavoro eccentrico del secondo Novecento, frutto di una potente energia visionaria unita a una squisitissima gioielleria verbale. Bastano poche pagine per subire il fascino da pifferaio magico della prosa dello scrittore belga, capace di condurre il lettore in spazi mentali inauditi ma non per questo privi di leggi rigorose e inesorabili: proprio come i numeri degli artisti del circo russo tanto amati da Willems. Volendo osare una formula, direi che questi racconti sono l’opera di un René Magritte della penna. Comune allo scrittore e al pittore belgi non è solo l’orientamento decisamente surrealista della loro poetica, ma una specie di classicismo capace di bilanciare la pressione dell’irrazionale, conferendo alla visione contorni netti e una paradossale verosimiglianza. È come se a ogni racconto, con signorile diposto sinvoltura, Willems ci accompagnasse, con premura mista a ironico distacco, fino ai limiti dell’immaginazione: là dove fantasia e memoria, sogno e scrittura, menzogna e confessione rivelano finalmente la loro identità.
Spesso l’uomo che ci racconta le sue stranissime avventure, con l’aria di sceglierne una tra mille, comincia con il rievocare un viaggio in terre lontane («I miei affari mi avevano portato a Helsinki un 15 di dicembre»; «Ero a Sofia e aspettavo gli esiti delle mie trattative con il ministero delle Finanze»; «Era il 1961. Andavo
in Estremo Oriente»…). Sono premesse del tutto attendibili, come accade in tanti racconti di Jorge Luis Borges, o del nostro Dino Buzzati, ma lo sconfinamento in un altro livello della realtà è repentino e irreversibile, come se iniziasse un nuovo viaggio all’interno del viaggio, che non è più un normale spostamento nello spazio, ma un’immersione nelle acque profonde dell’inconscio, dell’enigma, del simbolo rivelatore.
Ogni riassunto rischia di falsare l’incanto di questi delicati arabeschi narrativi nei quali basterebbe una parola fuori e
L’autore
Uomini al lavoro per far venire giù tutto il resto. Ecco ad esempio il protagonista di Un viaggio da arcivescovo, ospite del munifico e ricchissimo conte Kazaala, che trascorre una notte all’aperto nella foresta finlandese, in pieno inverno, godendo la compagnia della contessa in un sontuoso letto «foderato di pellicce d’orso polare e di morbide coperte d’alce». I fiocchi di neve, «indaffarati e innocenti», cadono in quella «chiesa dell’immensità» che è la foresta «con una certa fiducia nell’inutile» che lo scrittore comprende bene. Come i fiocchi di neve, infatti, anche i suoi racconti sono «costruzioni del nulla». O meglio, non diversamente dai sogni, le storie di Willems sono mondi che sorgono da un vuoto di cui costituiscono l’aspetto evidente, come la limatura di ferro rende visibile, disponendosi in questa o quella forma, l’azione di un campo magnetico.
Per questo scrittore così imbevuto della lezione dei grandi romantici e dei poeti simbolisti, ogni parola scritta, al di là dei suoi significati stabiliti dal dizionario e dall’abitudine, è la manifestazione di un contenuto inesprimibile che la presuppone e che nessuna definizione univoca può pretendere di afferrare. Ma è proprio quel vuoto centrale il luogo in cui può finalmente realizzarsi l’incontro tra lo scrittore e ogni singolo lettore, ognuno dotato della sua singolare capacità di immaginazione.
Diventa centrale per Willems una metafora architettonica, sviluppata nei due ultimi racconti della raccolta: i «Palazzi del Vuoto» come li chiama Victor, l’architetto al quale andrà attribuita anche l’invenzione della «cattedrale di nebbia». Non diversamente dal narratore, anche questo artefice allegorico crea le sue forme con la «fiducia nell’inutile» necessaria a rendere evidente la trasparenza dell’informe, a limitare l’illimitato. «C’erano passerelle leggere sospese ad altezze vertiginose; migliaia di sottili scale d’acciaio, che sembravano poggiate al cielo, striavano lo spazio e fasciavano immense sale d’aria. Giacché il palazzo altro non era che un immane vuoto, un buco al centro di un groviglio di linee, un precipizio che si slanciava verso il cielo». Non molto diversa è la «cattedrale di nebbia» costruita dall’«architetto V.» nella foresta di Houthulst, creando con dei mantici «un sistema di correnti d’aria calda che si innalzavano come pareti e colonne cave». Se è vero che, a differenza dei più tradizionali mezzi di costruzione, la nebbia «non si lascia né tagliare né cementare», l’architetto V. riesce nella sua impresa perché quell’inaudita materia di costruzione, nella sua inconsistenza, «segue dei sentieri aerei proprio come l’acqua segue il letto di un fiume».
Quelli di Willems non sono solo equivalenti scritti dei capricci architettonici della pittura. La cattedrale di nebbia è un luogo mistico, una specie di confine tra l’immanenza e la trascendenza che riproduce, nelle sue forme evanescenti e colme di vuoto, il rapporto che lega le parole al silenzio e all’indicibile.
Più che costruire un mondo alternativo alla realtà, la fantasia di Willems designa il limite di tutti i mondi possibili, la loro inesorabile prossimità al nulla e alla dimenticanza. Architetto di luoghi impossibili, giocoliere e filosofo, il poeta è colui che sa indirizzare sui giusti sentieri d’aria la nebbia dei suoi ricordi, dei suoi sogni, delle sue letture. Deve sempre mettere in conto che «l’atto di scrivere, prima di realizzarsi, subisce lunghe, numerose, complesse metamorfosi, il più delle volte torbide e dolorose». Come i vecchi alchimisti, sa bene che la realtà e l’irrealtà, o se si preferisce l’effimero e il permanente, non sono i termini inconciliabili di un’opposizione, ma gradi differenti di condensazione e rarefazione della stessa materia. Ed è questa la fonte inesauribile di meraviglia a cui si abbeverano il mondo e le storie che ne raccontiamo.