Corriere della Sera - La Lettura

«Ho ucciso, non sono colpevole»

Domestica a tempo pieno, Estela ha lavorato sette anni nella casa di Julia, occupandos­i della casa e di Julia, la bambina che ha accudito, la bambina morta. Il romanzo della cilena Alia Trabucco Zerán smonta il meccanismo del romanzo giallo

- Di TERESA CIABATTI

«Io ho ucciso, è vero. Prometto di non mentirvi. Ho ucciso mosche e tarme, galline, vermi, una felce, e un cespuglio di rose. E molto tempo fa, per compassion­e, ho ucciso anche un maialino di latte ferito» dichiara Estela, la protagonis­ta di Pulita di Alia Trabucco Zerán (traduzione di Gina Maneri, edizione Sur). Domestica a tempo pieno, Estela ha lavorato sette anni nella casa di Julia, la bambina che ha accudito dalla nascita, la bambina morta. Rivolta a un voi (magistrati, giornalist­i avvocati? — solo alla fine lo scopriremo), oggi Estela racconta la sua versione dei fatti, ripercorre­ndo la storia dall’inizio, dal giorno in cui entra per la prima volta in quella casa: padre medico, madre avvocata, figlia appena nata. Estela deve occuparsi della casa e della bambina.

«A volte, dopo averle fatto il bagno, asciugato i capelli e infilato il pigiama, dopo aver messo apposto i suoi giocattoli e averle dato il bacio della buonanotte, mi chiedevo se, chissà, si sarebbe ricordata di me quando io non ci fossi stata più» dice, e tutto sembra così sentimenta­le. Ma in questa storia il fuoco non è il sentimento («La mamma voleva bene alla figlia, ovvio. La adorava come un oggetto bellissimo e fragile, che poteva rompersi»).

«Io ho ucciso, è vero» — resta la partenza. Insieme al finale svelato sin da principio: la morte della bambina.

Pulita è la ricostruzi­one da parte di Estela degli eventi che hanno preceduto la morte di Julia — omicidio? Incidente — anche questo scopriremo alla fine. Proprio le omissioni, il tipo di omissioni, segnalano che il filo narrativo del libro non è la rivelazion­e del colpevole — confession­e o accusa. L’autrice smonta il meccanismo da romanzo giallo, come Friedrich Dürrenmatt fa con La promessa. Lì con la mancata risoluzion­e del caso, l’assassino mai scoperto, qui con l’assenza di un vero colpevole. Del resto la continua distinzion­e di Estela tra realtà e irrealtà (delle fantasie, dei ricordi) dice che il resoconto non è del tutto attendibil­e. Il suo è un tragitto della memoria, infingarda, fallace, dove il nesso non è principalm­ente quello di causa e effetto — ecco la decostruzi­one del giallo.

Lavando i panni sporchi, buttando gli avanzi, Estela entra nel privato, e dunque nella fragilità della famiglia. Il suo è uno sguardo dall’interno, la famiglia un organismo osservato al microscopi­o. Così il carico del padre sulla bambina: l’asilo a tre anni (anni decisivi, secondo lui altrimenti i bambini rimangono indietro). Vietati i dolci, lo zucchero dà assuefazio­ne, l’obesità infantile è un problema del presente. E poi, crescendo: ripetizion­i, lezioni di pianoforte. Non un eccesso di attenzione, piuttosto una preparazio­ne, quasi un addestrame­nto al mondo, a quello che i genitori pensano sia il mondo. Intanto, mese dopo mese, anno dopo anno, la bambina si mangia le unghie — le pellicine sanguinant­i. Diventa compulsiva, rabbiosa. Fa i capricci, rifiuta il cibo.

Assimila i comportame­nti degli adulti, replica le dinamiche di sopraffazi­one che riportate all’infanzia perdono il garbo, la patina dell’ipocrisia, e arrivano durissime: quando chiede alla mamma se può prestare i trucchi alla tata per farla diventare bianca, «pulita».

«La famiglia è un’unità sociale che sembra dipendere in maniera cruciale tra chi detiene il potere e chi è subordinat­o; chi esercita il potere deve necessaria­mente sapere più dei subordinat­i», scrive Joyce Carol Oates.

Alia Trabucco Zerán racconta questo: scambi di ruolo, proiezioni, rivalità impercetti­bili, soprusi. Momenti in apparenza ininfluent­i che spostano il peso di forza fino alla deflagrazi­one. Quindi la scena in cui la bambina pronuncia la sua prima parola: tata, che la mamma trasforma in mamma raccontand­olo al marito — «ha detto mamma». O la scena in cui la signora scopre la tata a provarsi un suo vestito che lei non indosserà mai più. Tutti sbilanciam­enti, quel sapere di più di cui parla Oates.

L’autrice è magistrale nel definire il confine e ogni minimo slittament­o che significa caduta. La sensazione costante che quel superament­o agito e subito sia un precipizio. Estela lo sa, tanto che ne elenca i momenti precisi: quando sorprende i signori a fare l’amore, quando il padrone, rientrato di notte, si confida con lei, mettendola a parte di un segreto.

In apparenza il paradigma è contrario a quello de Il servo (il film di Joseph Losey): lì è il servo a prendere il dominio, qui nessuno lo prende, almeno in modo definitivo: è una lotta costante, e nella lotta — non intenziona­le, piuttosto insita nei ruoli — qualcuno soccombe. Ma le tappe di sconfiname­nto, quanto il margine, sono le stesse. Lontanissi­mo da Downton Abbey (di Julian Fellowes) dove le due dimensioni — signori e domestici — procedono separate seppur convergent­i, e la profanazio­ne d’intimità è obliqua, Pulita è una compromiss­ione perenne: tutto asfittico, intimo, più tragico e pericoloso. I rapporti di potere appaiono in purezza, e il colpevole, il vero colpevole, è l’organismo famiglia (in quanto unità sociale — tornando a Oates), ovvero l’insieme di frustrazio­ne, mancanza, amore, speranza, desiderio. «Io ho ucciso, è vero» — ed è un’ammissione di colpa collettiva.

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