Corriere della Sera - La Lettura
Dentro la fucina di un’identità
Il debutto di Khashayar J. Khabushani è una variazione sul tema dell’affermazione di un immigrato negli Stati Uniti: questa volta la famiglia proviene dall’Iran e alle traversie personali si somma il clima anti-islamico dopo l’11 settembre
Il protagonista di Saluterò di nuovo il sole, appena uscito presso NN editore, si chiama K, ma non siamo davanti a un romanzo d’ispirazione kafkiana, per quanto qualche dubbio sulla propria identità il protagonista ce l’abbia. K potrebbe essere l’iniziale dell’autore (e sia il nome che il cognome andrebbero bene visto che si chiama Khashayar J. Khabushani) o l’iniziale di un qualunque altro giovane americano d’origine iraniana. Di certo c’è soltanto che K è anche l’iniziale del nome di un qualche re persiano, figura che non potrebbe sembrare più lontana nello spazio e nel tempo se il punto di vista è quello di K: la valle di San Fernando, nell’area urbana di Los Angeles, dove vive circa il 40% dei circa 700 mila irano-americani degli Usa. Un punto di vista che per i suoi genitori, giunti fin lì da immigrati, ha significato e significa anzitutto cercare di cavarsela economicamente in una terra dove le opportunità sono ampiamente bilanciate dal rischio di finire sul lastrico, mentre per lui si traduce prima di tutto nell’essere, o almeno cercare di essere, un vero ragazzo americano.
Il che non è facile per nessun figlio di immigrati, ma nell’attuale contesto storico-politico è molto più difficile per chi viene da un background musulmano, e per di più dal Paese in cima alla lista di quelli considerati «canaglia» dal governo statunitense. Quando il fratello Justin (i fratelli, a differenza di lui, hanno la fortuna di portare nomi «integrati») decide d’arruolarsi e sta per partire per il centro di addestramento di Fort Manning, il nome sul borsone militare spinge il protagonista a preoccuparsi per lui: non ti prenderanno mica per un nemico?
Il resto del quadro non è meno gravido di problemi: la madre di K fa quel che può ma è quasi sempre sola; il padre è violento, incapace e financo prono agli abusi; i fratelli sembrano più bravi di lui in tutto; come se non bastasse, i sentimenti, in via di cambiamento (o evoluzione) di K per il suo miglior amico Johnny indicano che presto ci sarà da affrontare anche la questione del proprio orientamento sessuale — e quindi, ancora una volta, quella della propria identità.
Il titolo di Saluterò di nuovo il sole viene da un verso della grande poetessa persiana Forough Farrokhzad, citata anche in esergo, che ben si presta a fungere da angelo custode a questo romanzo di formazione dal forte afflato lirico, per quanto il carattere oltremodo gentile di K appaia lontano da quello dell’iconoclasta poetessa. Non va altresì dimenticato che, per quanto in salsa persiana, quello di Khashayar Khabushani è prima di tutto un romanzo americano, scritto in inglese (e tradotto in italiano da Laura Gazzarrini), pubblicato negli Stati Uniti e rispondente agli stilemi formali e strutturali più tipici del romanzo americano contemporaneo, se non proprio a quelli dei master in creative writing (e, sì, Khabushani ne ha uno). Anche a livello tematico, l’impronta è chiara, senza nulla togliere al vissuto dell’autore, che traspare in modo evidente dal narrato: quello della ricerca d’identità e dell’esplorazione delle proprie radici è un filone che ha il proprio capostipite, e picco qualitativo, in Middlesex di Jeffrey Eugenides, uscito nel 2002. Ventidue anni dopo, lo schema è stato applicato praticamente a ogni Paese d’origine (quello di Eugenides era la Grecia) e orientamento, ma nessuno in fondo ha mai battuto il modello originario. Neanche Junot Díaz con La breve favolosa vita di Oscar Wao, buon secondo, né Chimamanda Ngozi Adichie col suo Americanah, probabile terzo.
A salvare Saluterò di nuovo il sole dal rischio di essere solo l’ennesimo calco del modello primario (in genere cambiano solo nomi, ricette e parole straniere seminate qua e là) all’interno di un filone ormai esausto per eccesso d’esplorazione, sono la capacità di scrittura e quella di affabulazione dell’autore. Khabushani scrive in modo semplice (e un po’ accademico, nel senso di quell’accademia che fornisce i Master of Fine Arts da cui viene il grosso dei nuovi autori statunitensi) ma non scrive male: ha un ritmo da poeta, è attento ai dettagli che contano, ha una sensibilità notevole per le location e sa come agganciare il lettore, sempre passando dalle azioni dei personaggi e senza mai dire troppo.
Dei tre atti di cui è composto il romanzo, che segue la vita di K da quando ha nove anni fino alla prima età adulta, il migliore è probabilmente il secondo, in cui il padre del protagonista, un ingegnere fallito e presuntuoso, dipendente dal gioco, che ha già rischiato di trascinare la famiglia nel baratro, decide di portarsi i figli in Iran (di fatto li rapisce), rompendo così la normalità del quotidiano e di fatto radicalizzando la necessità (ma anche la possibilità) di trovarsi un’identità da parte dei ragazzi. Anche la prima parte resta tuttavia godibile, con un punto di vista infantile ben inquadrato, e in fondo tiene botta anche la risoluzione, nonostante il prevedibile rimando all’11 settembre. Ma che ne sappiamo noi, di quanto sia stato difficile esser musulmani in America dopo l’11/9? E quanto difficile lo fosse anche prima, con la viva carenza di riferimenti? Non è un caso che uno degli highlight di tenerezza del romanzo corrisponda a quando il fratello del protagonista si appassiona ai System of a Down, perché «il cantante (Serj Tankian, di origini armene, ndr) è l’unico nella scena rock che almeno un po’ ci somiglia».
Tutto considerato, Saluterò di nuovo il sole, col suo misurato bilanciamento di temi e riferimenti, si legge con un certo gusto, nonostante diverse ingenuità. Anzi, considerando che si è di fronte a un esordio, il bilancio resta senz’altro positivo mentre il romanzo scivola in modo controllato verso la fine, senza mai annoiare il lettore (ma anche senza metterlo alla prova: questo potrebbe essere il suo principale difetto), che a prescindere del background si riconoscerà in particolare nei dubbi dell’infanzia e nei tormenti della preadolescenza, molto ben ritratti da Khabushani.