Corriere della Sera - La Lettura
Willem de Kooning Quanta Italia in questi colori
Scene da un’attrazione fatale, quella di Willem (Bill) de Kooning — grande maestro dell’espressionismo astratto americano — per l’Italia. Atto primo: fine anni Trenta-inizio anni Quaranta, il giovane Bill (classe 1904) trascorre con l’amico Arshile Gorky lunghe ore al Metropolitan Museum di New York davanti agli affreschi pompeiani della villa di Boscoreale (I secolo avanti Cristo) che gli ispireranno il ritratto di uomo seduto oggi all’Hirshhorn Museum di Washington (Seated Man, 1939 circa). Atto secondo: anno 1948, Bill tiene una conferenza al Black Mountain College in North Carolina su Cézanne and the Color of Veronese, conferenza che molti studenti diserteranno perché (parole loro) «era difficile riuscire a digerire i suoi discorsi sul Rinascimento italiano, i veneziani e le loro pennellate che nessuno avrebbe potuto fare meglio». Atto terzo: 3 giugno-15 ottobre 1950, Bill ormai famoso presenta alla Biennale di Venezia Excavation (grande olio su tela oggi nella collezione dell’Art Institute di Chicago), dichiaratamente ispirato al cinema neorealista italiano, che l’artista seguiva anche da New York, in particolare a Riso amaro (1949) di Giuseppe de Santis (leggenda vuole che la fotografia di Silvana Mangano, Doris Dowling e delle altre mondine con le gambe nell’acqua abbia fatto da modello anche per la serie Women, 1950-1953).
Così, se tecnicamente la mostra Willem de Kooning e l’Italia che si inaugura il 17 aprile alle Gallerie dell’Accademia di Venezia, la più grande finora mai dedicata in Italia all’artista olandese naturalizzato americano (scomparso nel 1997), si concentra sull’impatto dei suoi due soggiorni in Italia (uno nel 1959 e uno nel 1969) sull’opera, i 75 lavori esposti consentono al tempo stesso anche di allargare lo sguardo. Perché, appunto, l’attrazione fatale di Bill comincia e prosegue anche al di là di quei soggiorni e perché sarà qualcosa di assai profondo: «Contrariamente a molti artisti della sua generazione, come Jackson Pollock o Clyfford Still — spiega Mario Codognato che con Gary Garrels ha curato la mostra veneziana — de Kooning non ha mai pensato che fosse possibile rifiutare il passato, fare tabula rasa e ripartire da zero. Il suo rapporto con l’Italia è un flusso vorticoso di sollecitazioni dell’arte quanto della storia, del passato quanto del presente, di vicende personali quanto dell’immaginario collettivo».
E l’Italia di Bill sarà soprattutto l’Italia di Roma e di Venezia, anche se visiterà il Giardino dei mostri di Bomarzo, e anche se sulla parete del suo studio di New York appenderà una riproduzione del Miracolo dell’Ostia
Apre a Venezia la più grande retrospettiva dedicata nel nostro Paese (e sul nostro Paese) al campione dell’espressionismo astratto nato 120 anni fa. Gli omaggi e i debiti verso la Laguna e verso Roma, verso Veronese e Paolo Uccello e il neorealismo
Realizzata in concomitanza con la 60ª Biennale internazionale d’arte di Venezia, la mostra è la più grande retrospettiva mai organizzata in Italia sull’artista statunitense d’origine olandese (Rotterdam, 24 aprile 1904 - East Hampton, Usa, 19 marzo 1997), in occasione dei 120 anni della nascita. Il progetto espositivo (in collaborazione con The Willem de Kooning Foundation) riunisce 75 opere da musei e collezioni private analizzando in particolare i due periodi che de Kooning trascorse in Italia (1959 e 1969) e il profondo impatto che hanno avuto sul suo lavoro
De Kooning è stato una delle personalità fondamentali dell’espressionismo astratto. Dopo avere lavorato ancora giovanissimo in una ditta di pittura e decorazione, frequenta la scuola di arti e tecniche di Rotterdam, poi le accademie di Bruxelles e di Anversa. Emigrato negli Usa nel 1926, dal 1935 inizia a dedicarsi esclusivamente alla pittura grazie al Wpa Federal Art Project. Nel 1950 completa uno dei dipinti astratti più importanti del secolo, che rappresenterà gli Usa alla Biennale di Venezia, la prima delle sei a cui parteciperà (1950, 1954, 1956, 1978, 1986 e 1988). Anche a lui si deve lo spostamento del centro dell’avanguardia da Parigi a New York. De Kooning ha mantenuto un ruolo di primo piano sulla scena artistica mondiale fino agli ultimi anni Ottanta, quando, affetto dall’Alzheimer, fu costretto a interrompere l’attività profanata (1467-1468) di Paolo Uccello oggi alla Galleria nazionale delle Marche di Urbino. «Avvertiva una grande affinità con entrambe — aggiunge Garrels —, con la loro architettura, con i loro paesaggi, con gli artisti». A rendergli ancora più vicina Venezia sarà la presenza costante dell’acqua, nei canali e nella laguna, così familiare e affascinante per lui che viveva già a Manhattan, ma che era originario di Rotterdam (da qui nel 1926 si era imbarcato clandestinamente su una nave diretta negli Stati Uniti), «entrambi luoghi di incontro di fiumi e mare».
Sono luoghi d’acqua esattamente come Venezia. Dove de Kooning arriva nell’estate del 1959, all’apice del successo (la sua personale alla Sidney Janis Gallery aveva venduto tutte le opere il giorno stesso dell’inaugurazione), assieme alla sua compagna del tempo, Ruth Kligman (aspirante artista «bella e sensuale come Sophia Loren») che era stata la fidanzata di Jackson Pollock e che era sopravvissuta all’incidente stradale che nel 1956 aveva ucciso il pittore. Da tempo, nella sua mente, ci sono i corpi sontuosi del Rinascimento veneziano («La carne è la ragione per cui è stata inventata la pittura a olio» scriverà nel 1951 nel saggio The Renaissance and Order): i corpi del Festino degli dei (1514) di Giovanni Bellini, della Venere dormiente (1510) di Giorgione, dell’Origine della Via Lattea (1575 circa) di Tintoretto, della Leda con il cigno (1585) di Veronese (e ai visitatori della mostra basteranno pochi passi all’interno delle stesse Gallerie dell’Accademia per confrontarsi direttamente con quei modelli, dalla Tempesta di Giorgione alla Pietà di Tiziano).
Profeta dell’arte come stile di vita, de Kooning (che durante la sua vita ha vissuto molte storie intricate, malgrado sia rimasto sempre sposato con Elaine Fried e abbia avuto la sua unica figlia Lisa con Joan Ward) scopre proprio a Venezia che Ruth «vede qualcun altro» e decide di andare a Roma, prima di tornare a New York, dove resta per pochi giorni, incontrando il poeta Gregory Corso e visitando la Cappella Sistina e la tomba di John Keats nel Cimitero acattolico, la cui scoperta gli ispirerà più tardi (nel 1975) il dipinto ...Whose Name Was Writ in Water oggi al Guggenheim di New York.
A settembre dello stesso anno, Willem e Ruth tornano a Roma: è la Roma della Dolce vita (1960) di Fellini, di Vacanze romane (1953) di Wyler, della Hollywood sul Tevere, la stessa Roma dove vivono e lavorano gli americani Philip Guston, Mark Rothko, Franz Kline, Robert Rauschenberg, Cy Twombly, la Roma degli italiani Alberto Burri, Piero Dorazio, Afro, Salvatore Scarpitta: «Quando andai a Roma — confesserà più tardi — mi piacque immensamente, perché mi resi conto che, dopo tutto, mi trovavo nella città più antica del mondo occidentale e che sarei tornato in quella più recente». Ma è anche la Roma dell’Estasi di Santa Teresa (1647) del Bernini, maestro del barocco che in un’intervista del 1971 de Kooning avrebbe trasformato in qualcosa di ben diverso: «Se mai avessi visto il minimalismo, era lì. Non fa trasparire nulla, come il gesto di un santo che guarda verso il cielo». In «questo mondo a parte» che è la Città eterna, in una costante contraddizione tra bellezza e degrado, tra estetica e politica Bill produrrà un notevole insieme di opere in bianco e nero su carta, caratterizzate da metodi sperimentali: dipinge sul pavimento, mescola smalto con pietra pomice, strappa e fa collage con la carta. Così come l’ambiente newyorchese si rifletteva nei dipinti e nei disegni di de Kooning, lo stesso sembra accadere durante il soggiorno romano. Un’evoluzione che in mostra sarà testimoniata da tre capolavori del 1960: Door to the River, A Tree in Naples e Villa Borghese (esposti insieme per la prima volta) in cui sembrano ritrovarsi (in forma astratta) la luce e i colori dei paesaggi italiani, messi a confronto a una serie di lavori che invece «trasfigurano la figura umana» (Red Man with Moustache del 1971, Woman Accabonac del 1966) .
Di nuovo Roma, dieci anni più tardi, sarà la chiave di volta per l’ennesimo passaggio. Invitato nel 1969 al Festival dei due mondi di Spoleto che quello stesso anno proponeva l’Orlando furioso riadattato da Edoardo Sanguineti con la regia di Luca Ronconi, Willem de Kooning ritorna in Italia con la compagna di allora Susan Brockman e più volte da Spoleto si sposta nella sua Roma dove crescevano artisti come Mario Ceroli, Pino Pascali e Jannis Kounellis. E dove si imbatte in un vecchio amico di New York, lo scultore Herzl Emanuel, un incontro casuale che porterà de Kooning a lavorare per la prima volta con la creta e a produrre tredici piccoli calchi in bronzo che sembrano l’equivalente di uno schizzo di Canova o di Rodin e che apriranno la strada alla sperimentazione da cui nasceranno le ultime grandiose astrazioni (Pirata, 1981; Untitled XXI, 1982; The Cat’s Meow, 1987) a cui è dedicata l’ultima grande sala della mostra veneziana. Il 20 luglio Bill assiste all’allunaggio dell’Apollo 11 davanti a una televisione in un bar romano e pochi giorni dopo parte per New York, portando con sé (forse proprio per colpa di quell’allunaggio) il ricordo di un’Italia dove tutto appare «mezzo sospeso o proiettato nello spazio», dove «i dipinti sembrano funzionare da qualsiasi angolazione si scelga di guardarli», dove «l’arte sembra essersi liberata dalla forza di gravità».