Corriere della Sera - La Lettura
Pino Pascali Adesso gioco io!
Pochi anni di vita (33), pochissimi d’arte (4): in questo arco di tempo, un ragazzo arrivato a Roma da Bari, allievo di Toti Scialoja, scenografo per la tv e la pubblicità, «scrive» un romanzo di formazione, bruciante e poetico. In lui c’è affabulazione,
Tante vite in una vita breve. Nato a Bari nel 1935, Pino Pascali compie la sua fulminante traiettoria nel respiro di quattro anni. Allievo di Toti Scialoja, dapprima scenografo per la tv e per la pubblicità, nel 1965 tiene la sua prima personale, cui ne seguono altre, fino alla Biennale del 1968. Proprio nel settembre di quell’anno — a 33 anni — muore in un incidente stradale. Dunque, una parabola durata poco più di un attimo, nel corso della quale Pascali compone, per frammenti, i capitoli di una sorta di romanzo d’esordio. Una mobile e plurale narrazione di forme e di invenzioni, segnata da transiti e aperture, da scoperte e sperimentazioni, con rimandi al dadaismo, alla Pop Art, all’Arte Povera, al minimalismo, alla pubblicità, alla televisione.
Questa epica minore è ricostruita, per sequenze essenziali, nella rigorosa mostra, curata da Mark Godfrey, alla Fondazione Prada di Milano (fino al 23 settembre). Una retrospettiva che, senza indulgere in abbandoni agiografici, conduce nel cuore di un’avventura biografica e poetica bruciante. È stato ordinato un percorso che si muove tra registri diversi. Riprendendo un artificio critico spesso adottato da Germano Celant, la prima sezione si presenta come un remake: sono state riallestite le cinque esposizioni personali di Pascali. Esercizi pop e riscritture delle architetture romane; arditi assemblaggi di oggetti (ruote di automobili, marmitte e tubi), che formano «armi improprie», avvolte in strati di vernice verde; tele estroflesse, dotate di una fragile consistenza plastica, come parti di un luna park; botole chiuse e socchiuse disseminate sul suolo-marciapiede; un’amaca e una liana di lana di vetro, ispirate al Carosello televisivo. Infine, la sala della Biennale del 1968: oggetti di uso comune
(come le carte da gioco di un imponente solitario) avvolti dentro strati di pelliccia, omaggio ai feticci di Meret Oppenheim e alle icone di Claes Oldenburg.
La seconda sezione analizza i diversi materiali impiegati da Pascali per i «bachi da setola» e per i canali di irrigazione fatti di eternit. Incontriamo, poi, la tela sagomata, che evoca la prua di una barca; altri inoffensivi attrezzi di guerra; una meridiana poggiata su un cretto; un quadro di pelle con schizzi blu e oro; un nido; uno sgabello peloso.
Assumendo un andamento documentaristico, la terza sezione propone sofisticate zoomate. Accompagnate da scatti fotografici, che ritraggono Pascali in pose divertite e teatrali, ecco alcune sue sculture celebri: il cavalletto peloso, il gigantesco ragno, altri «bachi da setola», il mare inscatolato in cornici di alluminio.
L’epilogo raduna opere presentate in occasione di mostre collettive: qui i lavori di Pascali sono posti in dialogo con quelli di Boetti, Pistoletto, Fabro, Ceroli, Bonalumi, Kounellis e Mattiacci.
Passeggiare tra i padiglioni della Fondazione Prada è come leggere le pagine di un incompiuto romanzo visivo, fondato sul ricorso agli stessi stratagemmi delle fiabe popolari, che sono modellate su strutture fisse, capaci, tuttavia, di suggerire un ampio numero di combinazioni, tra trasformazioni, metamorfosi e anamorfosi. Sorretto da un’inclinazione istintiva all’affabulazione, Pascali pensa le sue opere come ipotesi di distanziamento e, al tempo stesso, di invenzione. Guidato dall’amore per l’assurdo e le mascherate, concepisce il surreale come proiezione ortogonale del reale. Mescolando tracce bibliche e riferimenti disneyani, sostituisce il «nostro» mondo con il «suo». È un mondo riconoscibile, ma più libero e più fluido di quello nel quale ci muoviamo, lambito da segrete assonanze futuriste. Sulle orme di Balla e Depero, ha l’ambizione di «ricostruire l’universo rallegrandolo». E, forse memore di un invito di Palazzeschi, sembra esclamare: «E lasciatemi divertire!».
Siamo dinanzi al controcanto dell’arte impegnata, trionfante negli anni Sessanta. D’incanto, ci troviamo in un Paese dei balocchi assemblato da un artefice sapiente nel consegnarci una disinvolta riarticolazione del visibile, fatta di alterazioni, trasfigurazioni, allegorie. Governato dalla fantasia, questo zoo è abitato da oggetti ingegnosi e da fantasmi costretti a mosse lente e sincopate. Balocchi quasi intangibili, ma solenni: pur divaganti e rarefatti, hanno linee agili ma chiuse, definite. Si tratta di un parco giochi in cui si mescolano echi pop, tentazioni monumentali e fascinazioni minimaliste. Per un verso, animato da una sincera sensibilità sociologica, attento a salvaguardare il piano della riconoscibilità, Pascali stilizza le immagini. Per un altro verso, avverte il bisogno di dare spessore plastico alle sue scorribande oniriche, per pervenire a un «gigantismo» fatto di materiali leggeri. Per un altro verso ancora, senza nascondere una vocazione analitica, tende a semplificare. La forma vince sull’informe: il mare viene misurato. L’inutile trionfa sul funzionale: figure di un comizio di pace, simili a macchine celibi, le armi di Pascali non sparano. Motti di spirito, prodigi, sberleffi e trovate confluiscono in questo involontario romanzo di formazione. Il quale, al di là delle tante incursioni tecniche e materiche intraprese, non si è mai allontanato da un’«idea fissa». L’arte come favola. Come dispositivo capace di generare, in un tempo disincantato, stupore, meraviglia, sortilegio, choc. L’inatteso. L’imprevedibile.
Nel 2025 avrebbe festeggiato 90 anni.