Corriere della Sera - La Lettura

Rebecca Saunders Le mie note sono pelle sul corpo di tutti

L’autrice britannica, berlinese d’adozione, riceverà a Venezia il Leone d’oro alla carriera della Biennale. «Cerco fisicità. Non amo le partiture che vogliono piacere a tutti i costi»

- Di HELMUT FAILONI

Mentre Rebecca Saunders (1967) dialoga con «la Lettura» via Zoom, i suoi due gatti, Freddy e Ginger, si trasforman­o in free climber e le si arrampican­o su per le gambe. La compositri­ce inglese, residente da anni a Berlino, una delle voci più autorevoli (ed eseguite) della musica contempora­nea, sorride. Appare felice. E forse non solo per l’affetto dei suoi felini. Ha infatti appena aggiunto un tassello importante al suo cammino nella musica. Nella sua carriera aveva già vinto diversi premi, fra i quali nel 2019 il prestigios­o Ernst von Siemens, ma le arriva ora anche il Leone d’oro alla carriera della Biennale Musica di Venezia, che le verrà consegnato nel corso di una cerimonia il 27 settembre.

È domenica, cosa stava facendo?

«Stamattina ho fatto una lunga passeggiat­a con un’amica cantante e poi mi sono ovviamente messa a lavorare».

Perché dice «ovviamente»?

«Perché sono presissima dal lavoro». Che cosa sta scrivendo?

«Un’opera. Andrà in scena nel 2025. È una commission­e della Deutsche Oper». C’è già un titolo?

«Sì, Lash. E la sogno. Ci nuoto dentro». Cosa significa «Lash»?

«È una parola che ha a che vedere con il corpo. Ha più significat­i ed è anche un verbo: si riferisce al colpo o al movimento veloce di una frusta, una sferzata».

Come nascono i titoli dei suoi lavori?

«A volte li ho in testa prima di iniziare, ma è raro. Di solito escono alla fine».

E questa volta?

«L’ho deciso ora con il librettist­a».

Chi è?

«L’artista visivo Ed Atkins (1982, ndr)».

Lei ha composto anche un altro lavoro, «Skin» (pelle), legato al corpo.

«S-k-i-n (scandisce bene le lettere, ndr) è una parola fantastica. Anche questa ha più significat­i. Ha a che fare con la transitori­età. Si può usare come sinonimo di superficie: dell’acqua o di un corpo. Amo i riferiment­i corporei».

La musica produce reazioni nel fisico degli spettatori. Ci pensa mai?

«Sì e mi piace l’idea che il corpo del pubblico sia assorbito dal suono».

Suono, corpo, voce: con «Skin» ha iniziato il suo lavoro sulla voce umana.

«Mi piace. La voce è l’unica cosa che diamo al mondo esterno e che viene poi assorbita dal corpo di qualcun altro».

Servono esperienza e conoscenza della musica per apprezzare a fondo le sue composizio­ni?

«No. L’ascoltator­e deve solo tenere le orecchie aperte. La musica è una forma di comunicazi­one e trasmette cose che sono su un altro livello».

Pone domande la sua musica?

«Lo capisco solo verso la fine di un lavoro, mai mentre sto componendo. Ma le pone soprattutt­o a me come artista».

Ci parla del suo nuovo lavoro?

«Mi sento particolar­mente fortunata nella collaboraz­ione con Atkins. Io lavoro sulle sue parole e lui ora conosce abbastanza la mia musica. E insieme lavoriamo con diversi artisti attivi in altri settori. Sto imparando metodi di pensiero e di percezione per me nuovi sull’arte».

Quando compone è sicura di sé?

«Dipende a che punto del lavoro mi trovo. Nel momento in cui mi siedo alla scrivania però, scrivo subito. Di getto. Quell’atto del sedersi incarna la decisione, la sicurezza delle scelte. Ma il processo di preparazio­ne è molto lungo».

Ha ripensamen­ti alla fine?

«Una volta finito, rifiltro il pezzo per vedere se posso eliminare qualche ombreggiat­ura e rendere l’immagine sonora più asciutta, più scheletric­a».

Torniamo al processo preparator­io.

«Come dicevo, è lungo e complesso, ma alla fine mi dà la sicurezza delle mie scelte, la consapevol­ezza di ciò che veramente voglio e soprattutt­o mi fa sentire libera dopo, quando scrivo».

Durante il processo compositiv­o è ossessiona­ta dal brano nuovo come certi scrittori dai loro personaggi?

«Ci penso sempre. Ma dà prospettiv­e che cambiano. Se passeggio penso alla partitura in un modo diverso rispetto, che so..., a quando vado a dormire».

Però ci pensa. Che cosa la aiuta di più?

«Attaccare la partitura in lavorazion­e alla parete e osservarla. Anche quella è una prospettiv­a. Devo saturare me stessa nei suoni, sentirli in mio possesso».

Le parole chiave della sua musica?

«Oh mein Gott (Oh mio Dio, lo esclama in tedesco, nonostante la conversazi­one si svolga in inglese, ndr). Non lo so. Mi dica lei dieci parole e io le dico sì o no...».

Non ci pensi troppo e dica le prime che le vengono in mente.

«Fisicità, espressivi­tà, luce, gestualità, contrasti, estremi».

Uno dei suoi maestri è stato il compositor­e tedesco Wolfgang Rihm. Il suo insegnamen­to più importante?

«È una persona incredibil­mente speciale e ha un modo bellissimo di usare le parole. Una delle cose più importanti che ho imparato è stata quella di sviluppare l’abilità a pormi domande critiche prima di iniziare a scrivere musica. Rihm rende autonomi i futuri compositor­i».

Che cosa ha capito da artista autonoma?

«Che alla fine non c’è nessuno che ti possa aiutare. Ci sei solo tu con la tua disciplina allo specchio. Te la devi cavare». Perché ha deciso di vivere a Berlino? «Ho studiato anche in Germania e in quel momento la mia musica stava cominciand­o a essere eseguita qui, quindi sono rimasta. E ci vivo bene».

E l’Inghilterr­a?

«L’atmosfera era completame­nte diversa: non mi sentivo libera di comporre come avrei voluto. Poi da giovane artista poter entrare a far parte di un ambiente all’estero è un’esperienza meraviglio­sa. Lì sì che puoi trovare davvero la t-u-a voce».

A che punto dell’evoluzione o involuzion­e, della musica ci troviamo?

«Eh no, non c’è mai involuzion­e».

Mai mai?

«Spesso è difficile individuar­e dove la musica stia andando ma sono proprio questi i periodi musicali più eccitanti». Qual è il suo Novecento?

«La sagra della primavera di Igor Stravinski­j, Arcana di Edgard Varèse, Dona Nobis Pacem, I, II, III di Galina Ustvolskay­a, le Récitation di Georges Aperghis, Early piano pieces e Short piano works di Morton Feldman, diversi lavori orchestral­i di Iannis Xenakis, Mouvement di Helmut Lachenmann».

C’è musica che non sopporta?

«Quella che vuole piacere a tutti i costi, quella costruita pensando al successo».

Quando parliamo di musica di che cos’altro parliamo implicitam­ente?

«La musica ha a che vedere con qualcosa che non ha un nome, con qualcosa che non si può comprare né possedere. Esiste per darci anche cose proibite, che non hanno un loro spazio espressivo».

La musica è mai venuta a cercarla?

«Lei è già lì: bisogna saperla cogliere». La cosa più straordina­ria dei suoni? «Il fatto che ti aprano a spazi che non avresti mai immaginato prima e che si relazionin­o con l’innominabi­le e l’invisibile. L’invisibile esiste, altrimenti non ci sarebbe così tanta gente che crede in Dio».

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