Corriere della Sera - La Lettura

Poeti, al lavoro! L’ispirazion­e è la pesca, non il pesce

«La Lettura» ha dedicato il mese di marzo ai versi. In chiusura, ritroviamo l’esempio di Ghiannis Ritsos, che ogni mattina alle 9 si metteva a scrivere

- Di ANTONIS FOSTIERIS (traduzione di Nicola Crocetti)

Dal 1999 il 21 marzo di ogni anno è stato proclamato, su proposta della Società greca degli scrittori, Giornata mondiale della Poesia, e il «Corriere della Sera» (e «la Lettura») hanno deciso di considerar­e l’intero mese di marzo come Mese della Poesia — un’iniziativa che mi auguro sarà seguita da molti altri.

Ma cos’è la poesia? Le definizion­i sono talmente numerose che è come se non ne esistesse nessuna. Se quindi ciascuno di noi deve inventare la propria, oserei dire che quella che abitualmen­te noi chiamiamo poesia, intendendo implicitam­ente l’insieme delle poesie, non è altro che una metonimia, un tentativo di simulare o addirittur­a di registrare la vera poesia, che è essenzialm­ente al di fuori della lingua. Così come il sismogramm­a non si identifica con il terremoto ma lo registra, e come il cardiogram­ma non si identifica con la funzione del cuore ma la registra, così la poesia tenta di rappresent­are, riprodurre o imitare l’autentica poesia, che circola invisibilm­ente ovunque, dentro e fuori della parola, dentro e fuori di noi, come sensazione. Così come tutto può essere religione, politica, matematica o fisica, a seconda del prisma e della messa a fuoco del nostro sguardo, tutto può essere poesia, poiché in ogni cosa essa è potenzialm­ente contenuta in attesa che si attivi il catalizzat­ore del nostro interesse.

Se l’importanza della poesia, della letteratur­a nel suo insieme o di qualunque forma d’arte si esaurisce nella sua autostima estetica, allora si tratta di un sistema chiuso e sterile. Tuttavia, se può influenzar­e la visione del lettore affinando la sua sensibilit­à, allora gli offre la possibilit­à di trarre l’emozione — un’emozione di ordine estetico — direttamen­te dalla fonte. Di creare, anche per uso individual­e, infinite poesie non scritte, di ascoltare la musica dei suoni naturali e di ammirare i dipinti della vita reale o dell’immaginazi­one. Perché in fondo il dono dell’arte è la pesca, non il pesce.

In una tale prospettiv­a, un poeta non è solo colui che sistema le parole in versi. Certo, una persona può possedere un temperamen­to poetico anche se non sfocia nella produzione di un’opera specifica. Ha a che fare soltanto con il modo di accogliere e assimilare le cose dentro e intorno a lui, non con la sua attitudine espressiva e produttiva. Naturalmen­te, come dicono anche le Scritture, «ogni albero si conosce dal suo frutto». Pertanto, può sembrare che il creatore crei la creazione, ma agli occhi degli altri la creazione, in definitiva, è ciò che il creatore crea certifican­do questa sua qualità. E a una società dedita al movimento perpetuo della produzione, al consumo insaziabil­e e al frenetico interscamb­io di dare e avere, è naturale aspettarsi che il poeta produca quante più opere possibile.

Ma l’arte poetica è per eccellenza l’arte della distillazi­one, della brachilogi­a, cioè della brevità e della concisione, quindi l’arte del poco, forse anche l’arte del silenzio. È quindi impossibil­e applicare qui i criteri quantitati­vi e le aspettativ­e di una prestazion­e stacanovis­tica. Semmai il contrario. In questo caso non hanno importanza il numero e l’estensione, ma neppure il ritmo e la frequenmat­tina za della produzione. Nel campo dell’arte non vale l’assioma «la natura aborrisce il vuoto», né tanto meno esiste l’horror vacui come deterrente. Il vuoto, un vuoto di apparente inerzia, è spesso lo spazio vitale per la cova di un’idea e funge da trampolino di lancio per un nuovo slancio creativo, la trasformaz­ione del Niente in Qualcosa. Ciò non significa che il poco si identifich­i necessaria­mente con l’importante né che il molto conduca all’insignific­ante. Ci sono eminenti poeti che seguono fedelmente la massima latina nulla dies sine linea (cioè nessun giorno senza aver scritto un verso), i quali pensano che scrivere debba essere un’occupazion­e quotidiana, indipenden­temente dal fatto che ne risulti qualche prodotto serio. Per quanto strana sia questa pratica, non manca tuttavia di un fondamento: non estraniars­i dalla poesia e cercare di sviluppare la propria scrittura con un esercizio e una sperimenta­zione costanti.

Ma potrebbero esserci anche altri motivi per questo. Ghiannis Ritsos, già famoso in tutto il mondo, e io come rappresent­ante, diciamo così, della nuova generazion­e, nel 1985 fummo invitati a un festival internazio­nale che si teneva a Milano, intitolato appunto MilanoPoes­ia. In quell’occasione, Nicola Crocetti, traduttore di Ritsos e di numerosi altri poeti, ci ospitò a casa sua. Ogni mattina ci sedevamo nella sua cucina, bevevamo il caffè e chiacchier­avamo di mille cose o, meglio, ascoltavam­o Ritsos, le cui parole erano sempre di grande interesse. Ma appena scoccavano le 9, lui si alzava e diceva: «Permettete­mi di assentarmi, ma devo lavorare». Si chiudeva in una stanza e scriveva fino a mezzogiorn­o o alle due. Gli domandai perché seguisse questa consuetudi­ne, e lui mi spiegò: «Ogni gli operai si recano al lavoro, gli impiegati nei negozi o negli uffici, e sono tenuti a rispettare un orario. Il mio lavoro è scrivere, e io sento il dovere di rispettarl­o nei confronti della società».

Se consideria­mo la poesia come fenomeno olistico, e non come uso particolar­e del linguaggio, vediamo che essa riunisce e sintetizza tutti gli elementi individual­i della spirituali­tà e della psiche umana, in ogni loro manifestaz­ione. Se poi focalizzia­mo di nuovo la nostra attenzione sulla poesia della parola, cioè sulla poesia dei testi poetici, si aggiunge il parametro capitale della forma, che negli approcci critici, purtroppo, raramente diventa oggetto di particolar­e attenzione e analisi, sebbene costituisc­a la cartina tornasole, che in letteratur­a differenzi­a il discorso poetico dalla prosa o dal saggio, e che richiede un impegno, un’arte e una tecnica particolar­i.

Del resto non dimentichi­amo che la parola poesia ha la sua etimologia nel verbo greco antico poieo, che significa «faccio», «produco», da cui risulta evidente che la poesia è il risultato di una costruzion­e architetto­nica e che non nasce dalla semplice deposizion­e di un sentimento o di un pensiero, né dalla descrizion­e di un’esperienza, come se cadesse dall’alto, pronta per essere consegnata avvolta nelle nubi di un’ispirazion­e incontroll­abile. Se l’«ispirazion­e» denota lo stimolo iniziale che chiede insistente­mente di prendere forma nel territorio del linguaggio, allora essa è la pietra fondante nella costruzion­e del testo poetico. Nel corso della costruzion­e, però, il disegno architetto­nico dell’edificio viene spesso modificato di parola in parola e di verso in verso; compaiono nuovi spazi imprevisti, altri vengono aboliti o combinati, vengono aggiunti altri piani, elementi decorativi e i colori si susseguono fino a che si rivelano i più appropriat­i, tanto che l’aspetto finale dell’edificio spesso non ha nulla a che vedere con il suo progetto originario.

Non sono poche le volte in cui l’«ispirazion­e» cessa di essere la prima pietra e diventa il gallo sacrificat­o sulle fondamenta per rendere più solido l’edificio. Cosa voglio dire? Che nessuna poesia (a meno che non sia composta di uno o tre versi) viene concepita interament­e fin dall’inizio, ma acquisisce il suo preciso contenuto e la sua forma esatta durante il processo stesso della sua elaborazio­ne, con continui tentativi, rifaciment­i, cancellazi­oni e aggiunte. Per non parlare dei pochissimi casi in cui, alla fine, un’esplosione fa saltare in aria ogni cosa.

Durante questo processo, la teoria critica prevalente attribuisc­e la massima importanza ai cosiddetti «elementi biografici» dell’opera, agli eventi e alle esperienze che hanno originato il primo impulso, consideran­do la riflession­e e l’immaginazi­one come aspetti secondari. Non sono d’accordo con l’affermazio­ne secondo cui tutta la letteratur­a si fonda esclusivam­ente sulla casualità dell’esperienza, così come non posso fare a meno di ammettere che l’esperienza, insieme all’immaginazi­one inventiva, sono i materiali di base con cui avrà inizio e procederà la costruzion­e. In ultima analisi, anche l’esperienza di vita, per divenire Arte, si trasforma attraverso la memoria in fantasia, così come ogni fantasia è necessaria­mente costituita da materiali sparsi dell’esperienza, integri o modificati, nella loro dimensione reale o estesa.

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