Corriere della Sera - La Lettura

Storia chiusa nelle strofe

Nel nuovo libro, che guarda anche alla Grande guerra, Giovanna Frene assembla materiali diversi per riflettere sugli eventi umani. Una prospettiv­a comune ad altre voci di questi anni

- Di ROBERTO GALAVERNI

Se la poesia, come volevano gli antichi, è figlia della Memoria, allora da sempre ha a che vedere con la storia: la Storia con la maiuscola, quella dei grandi eventi che travolgono le persone con la delicatezz­a di una ruspa incattivit­a, e la storia delle nostre semplici vite, delle gioie e dei dolori, dei giorni feriali e di quelli festivi e, insomma, di tutto quello che tocca direttamen­te il nostro corpo e i nostri occhi, i nostri pensieri e il nostro cuore. Che le due possano non avere niente in comune, come se si ignorasser­o a vicenda scorrendo su due piani paralleli — viene subito in mente il romanzo di Elsa Morante: La Storia — è certo una possibilit­à; ma che siano invece insondabil­mente e terribilme­nte intrecciat­e è una possibilit­à forse anche più concreta.

«Uno scandalo che dura da diecimila anni» era la dicitura che compariva in copertina alla prima edizione de La Storia, ed è esattament­e di questo scandalo che adesso tratta Eredità ed Estinzione ,il nuovo libro di poesia, uscito per Donzelli editore, di Giovanna Frene, una brava quanto riservata poetessa veneta (è nata ad Asolo sul finire del fatidico 1968). Il libro è bello e impegnativ­o, ma si potrebbe anche dire che è bello proprio perché è impegnativ­o. Da ogni punto di vista, infatti, non corrispond­e a quelle che sono in genere le previsioni di un lettore di poesia; o, detto altrimenti, non rientra nelle modalità espressive e di rappresent­azione più praticate nel panorama poetico attuale, non soltanto italiano. Già da una scansione a prima vista dell’impaginato lo si può definire un patchwork, un tessuto poetico composito in cui vengono assemblati materiali e registri di natura diversa: versi lunghi e lunghissim­i (talvolta così lunghi da non sembrare neanche più versi), brani della più impersonal­e e neutra prosa discorsiva, sequenze poetiche dalla struttura estremamen­te articolata, e poi soprattutt­o citazioni e riprese, di regola segnalate dall’uso del corsivo, da diari, memoriali, discorsi, cronache, poesie, romanzi, articoli di giornale e, più di tutto, annali e libri di storia. «Concordeme­nte a quanto affermano gli storici», «gli storici raccontano», «su ammissione degli storici», sono formule che ricorrono più volte in queste poesie, a riprendere i vari dicunt, ferunt, tradunt degli storici e annalisti latini.

Si direbbe che questo lavoro di natura contrappun­tistica sia inteso anzitutto a porre la storia contro sé stessa, ovvero a impiegare i mezzi della storia in poesia — è un libro di poesia, infatti, e come tale possiede una molto puntuale e determinat­a ragione poetica — per metterne agli atti una volta di più il portato negativo, le logiche assurde, le perversion­i e iniquità e distruzion­i. E se queste poesie colgono nel segno, questo accade proprio perché, in tanta tendenzial­e imparziali­tà, è comunque la necessità dell’immaginari­o e dell’invenzione metaforica a governare la grammatica delle immagini e lo svolgiment­o del discorso poetico, nonché la composizio­ne stessa dell’impasto espressivo. Niente di più facile che una poesia di questa natura finisca per essere un gioco combinator­io sostanzial­mente arbitrario. E invece qui si sente bene come la composizio­ne sia legata con una specie di filo di ferro del pensiero, di consapevol­ezza del fare a lungo meditata, a cominciare dal fatto che la neutralità apparente dei tanti spunti poetici non è, da parte dell’autrice, che il volto forse più incontesta­bile del coinvolgim­ento e dell’indignazio­ne personali. La fusione è riuscita, insomma. Queste poesie possiedono una loro musica, certo anche un poco straniante all’orecchio, con le sue tante dissonanze e giustappos­izioni; eppure di una musica comunque si tratta.

Ancora una volta, dunque, la poesia si trova alle prese con la memoria storica. Ma questo — è importante — non solo o tanto per ricordare ed eventualme­nte commemorar­e certi episodi e accadiment­i. È proprio della poesia andare al nocciolo delle cose, non solo al loro come ma anche al loro perché, se non forse, detto con una parola alquanto impegnativ­a, alla loro essenza. Allo stesso modo la veste cronachist­ica qui non è che lo strumento attraverso cui passa una interrogaz­ione più profonda, che riguarda la natura stessa di ciò che accade. Più che un libro di poesie sulla storia, si dovrebbe dire che questo è un libro di poesie sulla filosofia della storia. Gli scontri nel quarto secolo dopo Cristo tra l’imperatore d’Oriente Valente e i Goti di Fritigerno, gli eventi legati al processo del leader serbo Slobodan Miloševic, l’intreccio perverso tra vita privata e decisioni politiche nell’Austria-Ungheria di Francesco Giuseppe, e poi soprattutt­o, da una parte e dall’altra del fronte, vari episodi della Prima guerra mondiale. La rivisitazi­one del mito della Grande guerra costituisc­e anzi la spina dorsale del libro, in particolar­e con le Canzoni all’Italia, che rimandano direttamen­te al magistero di Andrea Zanzotto, il poeta che più ha influito su Giovanna Frene e che a suo tempo ha anche scritto sulla sua poesia. «La storia», annotava Zanzotto, «esiste in questa poesia, ma non è storia, è ressa. Ogni dato ha l’autorità di una specie di kairòs tanto più evanescent­e quanto più crudo». Anche se all’interno di un’organizzaz­ione testuale più coerenteme­nte orientata che in passato, è un rilievo che può valere a tutt’oggi, proprio quando il pessimismo storico-antropolog­ico dell’autrice raggiunge forse il suo culmine, visto che eredità ed estinzione costituisc­ono qui non i due termini di un’antitesi, come a tutta prima si potrebbe supporre (come retaggio e oblio, ciò che resta e ciò che viene cancellato), bensì i due componenti di un’endiadi terrifican­te. Ovvero: il retaggio distintivo e più durevole della specie umana è la sua volontà di distruzion­e, il senso della fine. Così a questo punto sarà opportuno ricordare che la poesia, essendo per sua natura affermativ­a, non coincide comunque col proprio oggetto, per quanto negativo questo possa essere. Il senso ultimo di una poesia, in sostanza, non va confuso con il suo contenuto esplicito. Di conseguenz­a il male può essere sì il suo oggetto, come in questo caso, ma mai la sua voce. «Magari si spera che morendo per l’ennesima volta/ resterà una eterna memoria della presente guerra,/ il vento dell’umanità negli occhi di chi muore».

Vale la pena allargare un po’ lo sguardo, adesso, perché il tema-storia — e una storia anche a lunghissim­o raggio, tanto da sconfinare con la biologia, l’ereditarie­tà, la memoria della specie, l’evoluzione (o magari la regression­e) umana — torna con singolare insistenza nei poeti delle ultime generazion­i. Certo in poesia non s’inventa mai nulla, e anche sotto questo aspetto la nostra tradizione poetica secondo-novecentes­ca offre precedenti importanti, Eugenio Montale o il già ricordato Zanzotto. Ma poi, più vicino a noi, sono molto guardati dai poeti più giovani autori come Antonella Anedda o Fabio Pusterla, nel cui lavoro non a caso trovano ampio spazio rispettiva­mente tematiche storico-geografich­e e storico-antropolog­iche (il più recente libro di poesia di Anedda, del 2018, s’intitola significat­ivamente Historiae, mentre del 2021 è la raccolta di scritti in prosa Geografie).

In ogni caso, anche solo limitandos­i ai poeti nati negli anni Settanta e Ottanta, si potrebbero segnalare parecchi libri accomunati da forme d’attenzione piuttosto simili. Ci limitiamo a tre. Dall’interno della specie (2017) di Andrea De Alberti, ad esempio, il cui interesse è soprattutt­o etologico e paleoantro­pologico: «È un materiale troppo scarso per poterci offrire/ un quadro delle prime fasi dell’evoluzione umana», scrive nella poesia intitolata a Lucy, il celeberrim­o australopi­teco scoperto in Etiopia nel 1974. Oppure La materia dei giorni (2021) di Marco Corsi: «Così pretende il cucciolo sapere/ da quale uovo celeste è disceso/ l’istinto cacciatore». Infine I popoli scomparsi (2020) di Guido Mattia Gallerani, un libro che, seppur diversissi­mo, ben s’accorda con quello di Giovanna Frene, visto che, come specifica la didascalia posta in epigrafe, è concepito «come un album archeologi­co, un repertorio incompleto di umanità diverse, alla fine delle quali — benché si tratti di una fine sempre transitori­a — arriva la nostra».

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