Corriere della Sera - La Lettura
Storia chiusa nelle strofe
Nel nuovo libro, che guarda anche alla Grande guerra, Giovanna Frene assembla materiali diversi per riflettere sugli eventi umani. Una prospettiva comune ad altre voci di questi anni
Se la poesia, come volevano gli antichi, è figlia della Memoria, allora da sempre ha a che vedere con la storia: la Storia con la maiuscola, quella dei grandi eventi che travolgono le persone con la delicatezza di una ruspa incattivita, e la storia delle nostre semplici vite, delle gioie e dei dolori, dei giorni feriali e di quelli festivi e, insomma, di tutto quello che tocca direttamente il nostro corpo e i nostri occhi, i nostri pensieri e il nostro cuore. Che le due possano non avere niente in comune, come se si ignorassero a vicenda scorrendo su due piani paralleli — viene subito in mente il romanzo di Elsa Morante: La Storia — è certo una possibilità; ma che siano invece insondabilmente e terribilmente intrecciate è una possibilità forse anche più concreta.
«Uno scandalo che dura da diecimila anni» era la dicitura che compariva in copertina alla prima edizione de La Storia, ed è esattamente di questo scandalo che adesso tratta Eredità ed Estinzione ,il nuovo libro di poesia, uscito per Donzelli editore, di Giovanna Frene, una brava quanto riservata poetessa veneta (è nata ad Asolo sul finire del fatidico 1968). Il libro è bello e impegnativo, ma si potrebbe anche dire che è bello proprio perché è impegnativo. Da ogni punto di vista, infatti, non corrisponde a quelle che sono in genere le previsioni di un lettore di poesia; o, detto altrimenti, non rientra nelle modalità espressive e di rappresentazione più praticate nel panorama poetico attuale, non soltanto italiano. Già da una scansione a prima vista dell’impaginato lo si può definire un patchwork, un tessuto poetico composito in cui vengono assemblati materiali e registri di natura diversa: versi lunghi e lunghissimi (talvolta così lunghi da non sembrare neanche più versi), brani della più impersonale e neutra prosa discorsiva, sequenze poetiche dalla struttura estremamente articolata, e poi soprattutto citazioni e riprese, di regola segnalate dall’uso del corsivo, da diari, memoriali, discorsi, cronache, poesie, romanzi, articoli di giornale e, più di tutto, annali e libri di storia. «Concordemente a quanto affermano gli storici», «gli storici raccontano», «su ammissione degli storici», sono formule che ricorrono più volte in queste poesie, a riprendere i vari dicunt, ferunt, tradunt degli storici e annalisti latini.
Si direbbe che questo lavoro di natura contrappuntistica sia inteso anzitutto a porre la storia contro sé stessa, ovvero a impiegare i mezzi della storia in poesia — è un libro di poesia, infatti, e come tale possiede una molto puntuale e determinata ragione poetica — per metterne agli atti una volta di più il portato negativo, le logiche assurde, le perversioni e iniquità e distruzioni. E se queste poesie colgono nel segno, questo accade proprio perché, in tanta tendenziale imparzialità, è comunque la necessità dell’immaginario e dell’invenzione metaforica a governare la grammatica delle immagini e lo svolgimento del discorso poetico, nonché la composizione stessa dell’impasto espressivo. Niente di più facile che una poesia di questa natura finisca per essere un gioco combinatorio sostanzialmente arbitrario. E invece qui si sente bene come la composizione sia legata con una specie di filo di ferro del pensiero, di consapevolezza del fare a lungo meditata, a cominciare dal fatto che la neutralità apparente dei tanti spunti poetici non è, da parte dell’autrice, che il volto forse più incontestabile del coinvolgimento e dell’indignazione personali. La fusione è riuscita, insomma. Queste poesie possiedono una loro musica, certo anche un poco straniante all’orecchio, con le sue tante dissonanze e giustapposizioni; eppure di una musica comunque si tratta.
Ancora una volta, dunque, la poesia si trova alle prese con la memoria storica. Ma questo — è importante — non solo o tanto per ricordare ed eventualmente commemorare certi episodi e accadimenti. È proprio della poesia andare al nocciolo delle cose, non solo al loro come ma anche al loro perché, se non forse, detto con una parola alquanto impegnativa, alla loro essenza. Allo stesso modo la veste cronachistica qui non è che lo strumento attraverso cui passa una interrogazione più profonda, che riguarda la natura stessa di ciò che accade. Più che un libro di poesie sulla storia, si dovrebbe dire che questo è un libro di poesie sulla filosofia della storia. Gli scontri nel quarto secolo dopo Cristo tra l’imperatore d’Oriente Valente e i Goti di Fritigerno, gli eventi legati al processo del leader serbo Slobodan Miloševic, l’intreccio perverso tra vita privata e decisioni politiche nell’Austria-Ungheria di Francesco Giuseppe, e poi soprattutto, da una parte e dall’altra del fronte, vari episodi della Prima guerra mondiale. La rivisitazione del mito della Grande guerra costituisce anzi la spina dorsale del libro, in particolare con le Canzoni all’Italia, che rimandano direttamente al magistero di Andrea Zanzotto, il poeta che più ha influito su Giovanna Frene e che a suo tempo ha anche scritto sulla sua poesia. «La storia», annotava Zanzotto, «esiste in questa poesia, ma non è storia, è ressa. Ogni dato ha l’autorità di una specie di kairòs tanto più evanescente quanto più crudo». Anche se all’interno di un’organizzazione testuale più coerentemente orientata che in passato, è un rilievo che può valere a tutt’oggi, proprio quando il pessimismo storico-antropologico dell’autrice raggiunge forse il suo culmine, visto che eredità ed estinzione costituiscono qui non i due termini di un’antitesi, come a tutta prima si potrebbe supporre (come retaggio e oblio, ciò che resta e ciò che viene cancellato), bensì i due componenti di un’endiadi terrificante. Ovvero: il retaggio distintivo e più durevole della specie umana è la sua volontà di distruzione, il senso della fine. Così a questo punto sarà opportuno ricordare che la poesia, essendo per sua natura affermativa, non coincide comunque col proprio oggetto, per quanto negativo questo possa essere. Il senso ultimo di una poesia, in sostanza, non va confuso con il suo contenuto esplicito. Di conseguenza il male può essere sì il suo oggetto, come in questo caso, ma mai la sua voce. «Magari si spera che morendo per l’ennesima volta/ resterà una eterna memoria della presente guerra,/ il vento dell’umanità negli occhi di chi muore».
Vale la pena allargare un po’ lo sguardo, adesso, perché il tema-storia — e una storia anche a lunghissimo raggio, tanto da sconfinare con la biologia, l’ereditarietà, la memoria della specie, l’evoluzione (o magari la regressione) umana — torna con singolare insistenza nei poeti delle ultime generazioni. Certo in poesia non s’inventa mai nulla, e anche sotto questo aspetto la nostra tradizione poetica secondo-novecentesca offre precedenti importanti, Eugenio Montale o il già ricordato Zanzotto. Ma poi, più vicino a noi, sono molto guardati dai poeti più giovani autori come Antonella Anedda o Fabio Pusterla, nel cui lavoro non a caso trovano ampio spazio rispettivamente tematiche storico-geografiche e storico-antropologiche (il più recente libro di poesia di Anedda, del 2018, s’intitola significativamente Historiae, mentre del 2021 è la raccolta di scritti in prosa Geografie).
In ogni caso, anche solo limitandosi ai poeti nati negli anni Settanta e Ottanta, si potrebbero segnalare parecchi libri accomunati da forme d’attenzione piuttosto simili. Ci limitiamo a tre. Dall’interno della specie (2017) di Andrea De Alberti, ad esempio, il cui interesse è soprattutto etologico e paleoantropologico: «È un materiale troppo scarso per poterci offrire/ un quadro delle prime fasi dell’evoluzione umana», scrive nella poesia intitolata a Lucy, il celeberrimo australopiteco scoperto in Etiopia nel 1974. Oppure La materia dei giorni (2021) di Marco Corsi: «Così pretende il cucciolo sapere/ da quale uovo celeste è disceso/ l’istinto cacciatore». Infine I popoli scomparsi (2020) di Guido Mattia Gallerani, un libro che, seppur diversissimo, ben s’accorda con quello di Giovanna Frene, visto che, come specifica la didascalia posta in epigrafe, è concepito «come un album archeologico, un repertorio incompleto di umanità diverse, alla fine delle quali — benché si tratti di una fine sempre transitoria — arriva la nostra».