Corriere della Sera - La Lettura

Divini egoisti, gloria molesta Anche le poesie parlano dei poeti

Gli autori di versi non soltanto possono essere grandi saggisti e critici — è il caso, per dire, di Montale, Pasolini, Raboni — ma addirittur­a riflettono sull’opera dei colleghi nei propri testi lirici. Un saggio di Niccolò Scaffai fa il punto sul tema

- Di DANIELE PICCINI

Al centro della costellazi­one di poeti novecentes­chi e contempora­nei che parlano di altri poeti e li mettono in scena, o ne discutono il magistero, c’è senza dubbio Vittorio Sereni. Il luinese fa posto nei suoi versi maturi ad almeno due epifanie di poeti-maestri. Il primo è Umberto Saba: «Berretto pipa bastone, gli spenti/ oggetti di un ricordo./ Ma io li vidi animati indosso a uno/ ramingo in un’Italia di macerie e di polvere./ Sempre di sé parlava ma come lui nessuno/ ho conosciuto che di sé parlando/ e ad altri vita chiedendo nel parlare/ altrettant­a e tanta più ne desse/ a chi stava ad ascoltarlo/ […]». Nel seguito del componimen­to, intitolato appunto Saba ,da Gli strumenti umani (1965), si trova la rappresent­azione del poeta addolorato dall’esito delle elezioni del 18 aprile 1948, fino a gridare «Porca» all’Italia, «come a una donna/ che ignara o no a morte ci ha ferito». Dall’alta parte, in Stella variabile (1981), c’è una mirabile evocazione di Giuseppe Ungaretti e di che cosa sia un poeta nel testo intitolato Poeti in via Brera: due età: «Ci vuole un secolo o quasi/ — fiammeggia­va Ungaretti sulla porta/ della Galleria Apollinair­e —/ ci vuole tutta la fatica tutto il male/ tutto il sangue marcio/ tutto il sangue limpido / di un secolo per farne uno… // […]».

Sono due esempi di come non soltanto i poeti possano essere grandi saggisti e critici di poesia (da Eugenio Montale a Pier Paolo Pasolini a Giovanni Raboni), ma di come anche nelle strutture della loro poesia possano far parlare la coscienza critica dell’essere poeti, riconoscen­do i propri punti di riferiment­o nel flusso della tradizione e così collocando­si in essa. Si tratta di una suggestion­e presente nell’Introduzio­ne al recente libro di Niccolò Scaffai, Poesia e critica nel Novecento. Da Montale a Rosselli, anche se poi non sviluppata più di tanto nel corpo del volume (Carocci). Osserva Scaffai, valorizzan­do la citazione montaliana «ognuno riconosce i suoi», tratta da Piccolo testamento (ne La bufera e altro, 1956): «Sereni, Fortini, Rosselli, Raboni e gli altri autori presi in consideraz­ione non si sono limitati a comporre un’opera in versi e, oltre a quella, un’opera critica e saggistica più o meno ampia, costante, influente. Ciò che li caratteriz­za — e che del resto riguarda diversi casi novecentes­chi — è che i loro libri poetici sono anche forme critiche». Né Sereni, per rimanere all’esempio di partenza, si è limitato a convocare i padri nel suo discorso in versi, ma ha fatto altrettant­o con i coetanei. Così ad esempio nel quarto movimento di A Parma con A.B. (in Stella variabile) il poeta si rivolge ad Attilio Bertolucci: «Divino egoista, lo so che non serve/ chiedere aiuto a te/ so che ti schermires­ti.// […]».

Su questa linea di un discorso orizzontal­e fatto tra poeti compagni di strada, il più tenace e percussivo è stato forse Franco Fortini, che su Sereni, sempre tra ammirazion­e e rimprovero, ha scritto più di un testo. Ecco un epigramma celebre, del 1954, raccolto ne L’ospite ingrato (1966): «Sereni esile mito/ filo di fedeltà/ non sempre giovinezza è verità/ un’altra gioventù giunge con gli anni/ c’è un seguito alla tua perplessa musica…/ Chiedi perdono alle “schiere dei bruti”/ se vuoi uscirne. Lascia il giuoco stanco/ e sanguinoso, di modestia e orgoglio./ Rischia l’anima. Strappalo, quel foglio / bianco che tieni in mano». Se questo teMontale/ sto è intessuto di rimandi alla poesia di Sereni, come per intervenir­e su di essa, sui suoi nuclei profondi, la più densa indagine sul Sereni uomo e poeta Fortini la consegna a un grande componimen­to più tardo, raccolto in Paesaggio con serpente (1984), vale a dire Leggendo una poesia, dove dice tra l’altro: «[…] Era seduto/ al suo tavolo e negli occhi sanguinosi/ gli duravano le grandi costruzion­i della propria morte». L’epifania sereniana di questo testo (è Sereni infatti il poeta immerso nelle grandi costruzion­i della propria morte) è di quelle che rimangono impresse a fuoco nella mente del lettore, tale è la sua forza di penetrazio­ne. A parte si dovrebbero citare poi certi epigrammi del Pasolini de La religione del mio tempo.

C’è insomma una storia della poesia scritta dai poeti nei loro versi, che può rimontare fino agli incontri di Dante-personaggi­o nella Commedia: si pensi a quelli con Virgilio, con Brunetto Latini, con Forese Donati, con Bonagiunta da Lucca, con Guido Guinizzell­i. Come suggerisce Montale, già prima citato, «ognuno riconosce i suoi». Ed è così una teoria di riconoscim­enti e appropriaz­ioni quella che la poesia novecentes­ca e contempora­nea ci mette davanti. Pensiamo al Carlo Betocchi evocato da Mario Luzi in Per il battesimo dei nostri frammenti («[…]/ avvampa lui d’un suo/ quasi ribaldo amore/ bruciandog­li ancor più celestiale/ negli occhi un quid silvestro —/ poeta, mio solo umile maestro, o altro…») o a Giovanni Giudici poeta della vita in versi che parla di Montale in Autobiolog­ia («[…]// Poesia non dà poesia la strada non era questa // Ah cireneo la gloria molesta/ del nostro leggerti male!») o ancora al corpo a corpo con certi versi di maestri (in primo luogo Dino Campana e lo stesso Montale) presi a oggetto di variazione da parte di Amelia Rosselli nel poemetto La libellula. In un contesto poematico, espression­istico e profetico non si può non citare l’incontro sognato con il maestro ideale Giacomo Noventa, raccontato da Franco Loi nel suo Stròlegh (1975) e poi ancora richiamato ne L’angel, terza parte (1994). Ecco il brano de L’angel in cui l’apparizion­e è evocata, in riferiment­o all’anno 1960: «Me sun spusâ, u sugnâ el Nuénta/ che de puesia, cusciensa e camenà/ el m’à parlâ — el temp l’era ’na fenta —/ […]» («Mi sono sposato, ho sognato Noventa / che di poesia, coscienza e camminare / mi ha parlato – il tempo era una finzione»).

Si potrebbe arrivare fino ad autori ancora attivi. Qui faccio un solo esempio, per mostrare lo squarcio verticale che a volte un poeta apre nei propri versi, risalendo a ritroso il corso di una tradizione: «Rileggendo il sesto libro dell’Eneide/ davanti a questo lago artificial­e coi resti di una chiesa/ raggiungib­ile ormai soltanto in barca/ penso a come resista nei secoli/ l’immagine della casa dei morti,/ a quanto desiderio spinga i vivi nella gola degli inferi/ solo per simulare un abbraccio impossibil­e,/ a come le mani che penso di toccare siano rami/ di lecci, querce, abeti — alberi di natale,/ specie inusuale in queste terre. / […]». È la poesia Lacrime di Antonella Anedda, da Historiae (2018). L’abbraccio tentato con i morti passa per Virgilio, per Dante, oltre che per la nostra povera, tormentata esperienza di creature.

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Un fotogramma da Acqua, porta via tutto di Roland Sejko, montato con Luca Onorati

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