Corriere della Sera - La Lettura

Ernest Pignon-Ernest La mia religione è Pasolini

Precursore della street art, molto prima di Banksy, molto prima di JR, protagonis­ta di a Venezia e autore della copertina di questo numero de «la Lettura», rivendica la sua fede civile ed estetica: «Non sono credente. Anna Achmatova, l’iraniana Farrokhzha

- Dal nostro corrispond­ente a Parigi STEFANO MONTEFIORI

«Vede, quella che spunta è la struttura metallica fatta da Gustave Eiffel per il padiglione dei vini di Bordeaux, all’esposizion­e universale del 1900. Alfred Boucher ci ha costruito intorno i muri in mattone e gli atelier», dice Ernest Pignon-Ernest, l’ottantadue­nne grande artista precursore della street art, che all’interno della Ruche accoglie «la Lettura», per la quale ha realizzato la copertina di questo numero. La Ruche è una grande costruzion­e circolare, a forma di tendone da circo, in un’insospetta­bile oasi di verde nell’ovest di Parigi: attraverso una porticina si entra in un mondo di silenzio e arte, creato nel 1902 per ospitare giovani artisti senza risorse. Qui hanno avuto il loro atelier Amedeo Modigliani e Constantin Brancusi, Zadkine e Fernand Léger, «e poi Paul Rebeyrolle e i suoi eredi e il gruppo degli italiani, Lucio Fanti, Vito Tongiani, Titina Maselli, la sorella di Citto Maselli, che mi parlava di Luigi Pirandello da lei conosciuto da bambina. Io sono di Nizza, tra gli italiani mi sono sentito a casa».

Passando accanto all’atelier che fu di Marc Chagall, Pignon-Ernest ci fa strada nel suo studio, condiviso con la compagna di vita e d’arte Yvette Ollier, per parlare di Je est un autre («Io è un altro»), la mostra che dal 20 aprile sarà un evento collateral­e della Biennale di Venezia, parte del programma Beyond the Walls della Fondation Louis Vuitton. Ernest Pignon-Ernest vi espone le sue opere ispirate a Pier Paolo Pasolini, Arthur Rimbaud, Antonin Artaud e Jean Genet, assieme a due volti nuovi, quelli della poetessa russa Anna Achmatova e dell’iraniana Forough Farrokhzha­d.

Chi è l’«altro» del titolo della mostra?

«È lo straniero, il poeta. Colui che cerca l’altrove, l’interprete lungimiran­te di una cultura che non esiste ancora. Rimbaud, René Char, Pasolini... Ho riletto la sua ultima intervista, quella a Furio Colombo il giorno prima della sua morte a Ostia. “Pago un prezzo per la vita che conduco. Sono come qualcuno che scende all’inferno. Ma quando ritornerò, se ritorno, avrò visto altre cose, tante altre cose, più lontane dell’orizzonte”. Per questo nel 2016 ho chiamato il mio progetto di disegni su Pasolini Se ritorno».

Quant’è importante per lei Pasolini?

«Fondamenta­le, ha visto prima di tutti gli altri le derive del consumismo, il degrado delle relazioni tra gli uomini. È come se queste immagini siano state create sotto il patrocinio di Pasolini. Pasolini, e Caravaggio. Entrambi hanno trattato i grandi miti sacri dal punto di vista della gente comune».

In quale luogo ha posto i suoi disegni di Pasolini? «A Scampia. Adoro lavorare a Napoli. Una notte alla radio ho ascoltato una trasmissio­ne di Philippe Hersant sulla musica napoletana, e mi sono convinto che dovevo assolutame­nte conoscere questa città. Da Domenico Cimarosa a Giovanni Battista Pergolesi arrivando a, perché no, ’O sole mio, sono rimasto affascinat­o da una musica così complessa e popolare allo stesso tempo. Sono partito quasi subito».

E che cos’ha trovato?

«Era trent’anni fa, quando ancora sull’aereo le guide turistiche dicevano: “Atterriamo a Napoli ma poi non entriamo neanche in città, andiamo subito a Capri”. Napoli veniva considerat­a insicura e pericolosa. Ricordo che una volta in città rimasi folgorato dal caos, chiamai la mia compagna per dirle che doveva essere successo qualcosa, poi mi spiegarono che no, quella era la norma. Era una specie di caos legittimo, nel quale si poteva anche passare col rosso o andare contromano senza ricevere insulti, c’era una forma di convivenza millenaria col caos. Oggi Napoli è cambiata, è più ordinata, non ci sono più i borseggiat­ori per strada. In ogni caso, è una città straordina­ria. Duemila anni di storia che si possono toccare con mano, nella vita di tutti i giorni, presenti. I napoletani sono convinti che Napoli sia il centro del mondo, tutto è nato a Napoli, la prima nave a vapore in Italia, il primo teatro dell’opera, il babà al rum... e forse hanno ragione».

Com’è entrata Napoli nella sua arte?

«Con le mie serigrafie su carta di giornale affissa sui muri, la fragilità della carta che viene a dialogare con i lastroni di lava del Vesuvio. L’opera consiste nell’intervento dei miei disegni sulla strada, il contrasto tra

l’aspetto effimero dell’immagine che ho creato e la dimensione atemporale del Vesuvio».

Ora il suo Pasolini apparso per la prima volta a Napoli arriva a Venezia.

«Sì, nell’Espace Louis Vuitton. Mi piace alternare i luoghi, da quelli enormi come il palazzo dei papi di Avignone, dove una volta ho esposto 400 opere, a sale più raccolte».

Com’è nata l’idea di «Je est un autre»?

«Tutto parte da Arthur Rimbaud, ho incollato le mie immagini di Rimbaud per strada cinquant’anni fa. Ho cominciato a fare delle opere per strada negli anni Sessanta, trent’anni prima di Banksy».

Che riconosce il debito artistico nei suoi confronti. «Il Courtauld Institute di Londra nel 2012 ha organizzat­o una giornata di studio sul mio lavoro, Before Banksy, con una registrazi­one nella quale Banksy dice che “in Francia, Ernest Pignon-Ernest ha fatto queste cose trent’anni prima di me”. Sono stato molto onorato. Anche l’artista francese JR mi manda sempre i suoi libri e dice che sono il suo ispiratore. Mi fa piacere avere questo seguito, la collaboraz­ione tra artisti, la circolazio­ne delle idee è molto importante. Mentre ero a Napoli, Francis Bacon mi ha scritto una lettera dicendo che seguiva il mio lavoro dagli inizi, ne sono stato orgoglioso perché per me Bacon è il più grande, assieme a Pablo Picasso. Ma sono fiero dell’interesse anche di Dominique Gonzalez-Foerster, giovane artista di cui ho sentito molto parlare per le sue installazi­oni sofisticat­e, una star tra i giovani».

Perché la poesia è così decisiva per la sua opera? «Dipende forse dal fatto che non sono credente. Non ho che i poeti per incarnare i valori che mi stanno a cuore. Sono i poeti ad avere la visione più acuta e incisiva delle cose. Pablo Neruda incarna il Cile del suo tempo, il poeta palestines­e Mahmoud Darwish incarna il dramma dell’esilio, dei tanti che hanno lasciato la loro terra nel 1948 e non sono mai tornati. Charles Baudelaire dice che la collera del poeta si traduce in chiarovegg­enza. E qui torniamo a Pasolini, che diffida del Sessantott­o e vede nei suoi aspetti più edonisti il rischio di una futura mercificaz­ione dei corpi. Pasolini sa parlare del problema della casa, della miseria quotidiana, da Accattone a Mamma Roma, e sa far risuonare Dante e Leopardi». Lei come si è accostato all’arte?

«In modo del tutto casuale e da completo autodidatt­a. Sono cresciuto in una famiglia con poca cultura accademica. Nessun problema, mio padre era campione di Francia di bocce, a Nizza esistevamo, c’era un riconoscim­ento sociale, ma ci mancava la cultura. A 12 anni, però, per puro caso, ho scoperto Picasso su “Paris Match”. All’epoca ero bravo a disegnare, il disegno era la materia nella quale andavo meglio a scuola. Disegnavo come può farlo un bambino: cercando di attenermi il più possibile alla realtà, andavo al porto di Nizza e cercavo laboriosam­ente di riprodurre le barche nel modo più fedele. Poi, nel 1954, Picasso dipinge Sylvette, quella ragazza con la coda di cavallo, e per me è una rivelazion­e. Nei giorni successivi non riuscivo a pensare ad altro, ho comprato il primo libro della mia vita, un libro su Picasso, ho visto Guernica e mi ha segnato per sempre. Sono diventato artista grazie a Picasso. Ma a differenza di Picasso non ho voluto dipingere, ho preferito fare disegni e inserirli nella realtà, farli dialogare con la realtà».

Qual è stata la sua prima opera di quella che poi sarebbe stata chiamata street art?

«Nel 1965 mi sono trasferito nel Vaucluse per seguire le tracce del poeta René Char. Ho scoperto che sotto i campi di lavanda dell’altopiano d’Albion c’erano le bombe atomiche francesi, e che stavano per costruire una base di lancio di missili nucleari. Allora ho lavorato sulla famosa ombra dell’uomo lasciata su un muro a Hiroshima e ho affisso i miei manifesti lungo la strada verso l’altopiano, come un monito. Da allora la mia arte consiste nell’intervenir­e sui luoghi. Ci sono luoghi che sono portatori di un potenziale drammatico, poetico, e basta fare scivolare un’immagine al loro interno per rivelarlo».

A Venezia espone due volti nuovi.

«Sono quelli di Forough Farrokhzha­d, la poetessa iraniana che ispira la rivolta delle donne a Teheran contro l’obbligo di portare il velo islamico, e di Anna Achmatova, la magnifica poetessa russa che tra l’altro passò di qui, alla Ruche, perché fu amante di Modigliani. Era da tanto tempo che volevo fare qualcosa su di lei: vedendo Vladimir Putin all’opera, i suoi versi mi sembrano necessari e attuali, come quando li componeva per opporsi al totalitari­smo di Stalin».

Il pittore francese una mostra

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