Corriere della Sera - La Lettura
I fattori K
Il 22 aprile saranno tre secoli dalla nascita del filosofo Immanuel Kant ,il3 giugno cent’anni dalla morte di Franz Kafka. Due geni che hanno trasformato per sempre, ciascuno a modo suo, la cultura e il nostro modo di concepirci. Di lingua tedesca entramb
Accostare Immanuel Kant e Franz Kafka, al di là degli anniversari (il 22 aprile tre secoli dalla nascita del primo, il 3 giugno un secolo dalla morte dello scrittore), può sembrare a prima vista un esercizio di pura affinità fonetica, vista la distanza di pensiero tra il filosofo e lo scrittore, e quella temporale tra le loro vite. Certo, c’è in comune la lingua in cui scrivevano, il tedesco, e il fatto di farlo da luoghi che oggi tedeschi non sono: la città natale del pensatore, quella Königsberg prussiana che percorreva ogni giorno con la regolarità di un orologio, è oggi Kaliningrad, capitale dell’omonima exclave russa tra Polonia e Lituania, mentre la Praga vissuta, o forse sognata, da Kafka è ovviamente oggi la capitale della Repubblica Ceca e vi si parla ceco, mentre a cavallo tra Ottocento e Novecento, in quanto capitale del Regno di Boemia e parte dell’Impero austro-ungarico, aveva una cospicua popolazione di lingua tedesca. Ma si tratta di questioni superficiali, rispetto all’influenza che i due hanno avuto nell’idea che abbiamo del mondo. Per questo, al di là della lingua, o del «fattore K» (o «fattore Ka»?), non si tirerà troppo la corda nel presentare i due come genitori, non per caso antitetici — questione di completamento — della realtà che esperiamo, o almeno di parte di essa.
In effetti, i due «Ka» appartengono anche alla ristretta schiatta dei pensatori, o autori, che hanno avuto l’onore di un aggettivo formatosi a partire dai loro nomi. Si tratta, naturalmente, di aggettivi assai distanti tra loro: se «kantiano», oltre ad afferire al pensiero stesso di Immanuel Kant, indica, stando all’Oxford Dictionary, qualcosa di estremamente preciso e regolare, sappiamo bene come «kafkiano» sia la parola più di tutte capace di condurci nel regno del paradosso, dell’alienazione e dell’incomprensione, oltre ad avere definito una volta e per sempre la burocrazia e i suoi effetti sulla realtà che viviamo.
Viviamo dunque in una realtà sia «kantiana» che «kafkiana»? Non c’è dubbio, anche se qualcuno potrebbe obiettare che la situazione generale stia virando vieppiù sulla sponda kafkiana. Non sarebbe stato del resto possibile arrivare agli enigmi di Kafka, alle sue allegorie senza oggetto apparente, ai suoi misteri, se prima non si fosse superato il dogmatismo metafisico, come suggeriva di fare Kant: solo chi ha capito molto, e ha quantomeno provato a capire tutto, può arrivare a rendersi veramente conto che non c’è nulla da capire (o che nulla è comprensibile).
Definire Kant un ottimista sarebbe con ogni probabilità una semplificazione, ma di certo lo sembra rispetto a Kafka: uno predica la necessità di una «uscita dell’uomo dallo stato di minorità che egli deve imputare a sé stesso»; l’altro, pur non deresponsabilizzando l’uomo rispetto alla sua avvilente condizione, viene in fondo a dirci che dallo stato di minorità non c’è alcuna uscita, e la situazione può solo peggiorare (tutti i lettori ricordano le premesse del Processo; meno sono quelli che ne ricordano anche la conclusione, forse perché troppo dura da mandar giù: Josef K. viene scannato a coltellate, il suo ultimo pensiero è «Come un cane!» e il suo ultimo sentimento la vergogna).
Dice Kant: «Ogni interesse della mia ragione (tanto speculativo quanto pratico) si concentra nelle tre domande seguenti: Uno: che cosa posso sapere? Due: che cosa devo fare?
Tre: che cosa ho diritto di sperare?».
Risponde Kafka: Uno: nulla. Due: non ha alcuna importanza. Tre: nulla.
E tuttavia tanto le domande di uno quanto le risposte dell’altro si originano nello stesso punto, quello della nascita dell’uomo moderno. Finalmente sganciato dagli antichi dogmi, espulso dalla posizione (certo, illusoria) che aveva al centro del cosmo, l’uomo moderno è chiamato a definire il mondo, stabilire autonomamente le proprie regole di comportamento al suo interno, e definire la propria identità in base a quanto stabilito. Kant getta le premesse per queste nuove imprese; poco meno di un secolo e mezzo più tardi, Kafka, pur non rimpiangendo minimamente il mondo precedente, ne enuncia l’impossibilità, sottolineando la tragica ironia sottesa a simili aspirazioni. E lo fa senza assolvere nessuno: in fondo anche in Kafka ciascuno è responsabile del proprio destino, anche se non sa perché.
Il guscio del mondo in cui viviamo è ancora «kantiano», o non potrebbe tenere assieme la polpa; ma detta polpa è inevitabilmente «kafkiana», e ora che il vento della contemporaneità ha spazzato via gli ultimi idoli e le ultime ideologie, e senza farci scoprire più liberi, ma viceversa più spiati e controllati, obbligati a girare nella ruota di produzione e consumo come se ci fossimo svegliati trasformati in criceti, lo è ancora di più; e sempre più, ovunque nel mondo e nell’inconscio collettivo, come nell’Amerika di Kafka, le Statue della Libertà impugnano spade piuttosto che torce. Siamo ancora in tempo a tornare indietro? Sembrerà curioso, ma entrambi i «Ka» direbbero di sì: è in fondo la mente, sempre, a creare la realtà che poi esperisce.