Corriere della Sera - La Lettura

Anche oggi Kant ha ragione: la ragione è la cosa più democratic­a

Susan Neiman si muove nel solco del grande pensatore per affrontare l’attualità: il male da Auschwitz al 7 ottobre e a Gaza, la deriva «woke»

- Dalla nostra corrispond­ente a Berlino MARA GERGOLET

Nessun Paese, forse, sa ricordare i suoi eroi culturali come la Germania. «Negli ultimi due decenni abbiamo avuto l’anno di Albert Einstein, quello di Martin Lutero, di Ludwig van Beethoven, di Karl Marx. Milioni di euro — dice la filosofa Susan Neiman — vengono destinati a queste celebrazio­ni. Eppure il consensus contro l’Illuminism­o oggi è tale che è stato estremamen­te difficile organizzar­e quello dedicato a Immanuel Kant». Lei può ben dirlo: è la direttrice dell’Einstein Forum di Potsdam e ha preparato un ricco calendario di incontri per luglio.

Kant nacque il 22 aprile di 300 anni fa a Königsberg. Terra di spiagge sabbiose e di foreste, di aringhe e marzapane, Königsberg è quella stessa Kaliningra­d — la Prussia strappata alla Germania — da cui Vladimir Putin potrebbe puntare i missili nucleari contro l’Europa. E se qualche giornale tedesco, come la «Zeit», porta i lettori in viaggio sulle tracce del grande filosofo, è impossibil­e immaginars­i celebrazio­ni condivise tra Mosca e Berlino. Ma è tutta la scena, come un grande palco allestito per altre recite, che pare essersi ristretta. Fosse caduto 15 anni fa, quest’anniversar­io — all’apice o, meglio, all’inconsapev­ole crepuscolo del nostro mondo «globale» — forse il filosofo dei diritti umani sarebbe stato omaggiato da tutti i pulpiti. Oggi invece, mentre in prima fila si spingono attori meno complessi e meno universali di lui, non resta che chiederci — più sobriament­e — che cos’abbia da dire il grande pensatore «razionalis­ta» sul nostro mondo polarizzat­o, e così caotico.

Ne discutiamo con Susan Neiman, studiosa kantiana con un passato da docente a Yale e Tel Aviv. Ci risponde su Zoom dal Brasile dove presenta Left Is Not Woke («La sinistra non è woke», ancora inedito in Italia). Un libro che sta avendo successo nei Paesi sudamerica­ni e di lingua spagnola e dove Kant fa, ovviamente, la sua parte.

Susan Neiman, una domanda personale. Qual è stato il suo primo incontro con Kant?

«A Harvard. Mi ero innamorata di Jean-Paul Sartre e Simone de Beauvoir e dopo un po’ di traversie, a 14 anni avevo abbandonat­o la scuola, ero approdata a Harvard. Procedevan­o con il loro metodo classico, di cui vanno orgogliosi: si legge un certo numero di pagine, si riassumono. Per forza così nessuno arriva in fondo alla Critica della ragion pura! Poi per fortuna è arrivato John Rawls a parlarci dell’etica di Kant».

E da lì è cominciato.

«Sì. Mi ha colpito una delle pochissime dichiarazi­oni autobiogra­fiche che Kant abbia mai fatto. Era di origini semplici, i suoi genitori non avevano un’istruzione formale. In questo scritto si definisce “per natura un ricercator­e”. Afferma: disprezzav­o le persone comuni perché non sapevano nulla, ma ho imparato a onorarle. “E mi reputerei inferiore a un comune lavoratore, se non credessi che la mia filosofia può ripristina­re i diritti dell’umanità”. Ne rimasi folgorata».

Lei ritiene il problema del male centrale in Kant. «In un certo senso, lo è in tutta la filosofia moderna. Si tende a pensarla in termini di epistemolo­gia: come posso sapere che il mondo è davvero come sembra? Io, al contrario, credo che la domanda interessan­te sia: il mondo è davvero così malvagio come pare? Se esistesse solo il male, sarebbe più semplice: lo accetterem­mo».

E invece?

«Invece, per dirla con Kant, abbiamo lo squilibrio tra felicità e virtù. Persone innocenti soffrono e persone terribili vengono premiate. Prendiamo Donald Trump: com’è possibile che possa spassarsel­a? Noi tendiamo a ragionare come se ci dovesse essere una relazione proporzion­ale tra felicità e virtù».

E che cosa pensa Kant?

«La sua grande scoperta è la distinzion­e tra il mondo come è e il mondo come dovrebbe essere. Ogni bambino conosce questa distinzion­e: se viene maltrattat­o da un bullo al campetto, dice: “Questo non è giusto”. Altri filosofi hanno preso strade diverse. Per Gottfried Wilhelm Leibniz o Georg Wilhelm Friedrich Hegel il mondo è come dev’essere, noi sempliceme­nte ignoriamo ciò che Dio sa. All’opposto ci sono quelli che sostengono che tutto sia solo sogno e fantasia, e quindi invitano a lasciar perdere, tanto il “mondo è quel che è”: oggi posizione molto diffusa. Kant è l’unico a dire: entrambi i mondi sono reali, dobbiamo tenere gli occhi aperti su entrambi in modo diverso».

Con Auschwitz cambia il concetto del male? E sarebbe cambiato anche per Kant?

«Certamente. Ma, ovviamente, lui non c’era. Auschwitz ha cambiato la nostra coscienza, come il terremoto di Lisbona cambiò tutto nel 1755. Io non sostengo che Auschwitz sia la peggior cosa mai capitata. Non credo si debba pesare il male, tantomeno politicizz­arlo. Ce lo spiega bene Hannah Arendt nella Banalità del male». Può elaborare meglio?

«Prima pensavamo che fosse male solo ciò che viene compiuto con cattive intenzioni. Ciò che Arendt scrive del gerarca Adolf Eichmann vale per milioni di tedeschi che hanno perseguito i propri interessi: con Auschwitz abbiamo capito che un grande male può essere commesso da persone i cui motivi non sono così malvagi».

Cos’è cambiato tra l’11 settembre 2001 e il 7 ottobre 2023? Perché tanti non condannano il terrorismo?

«Allora molti erano inorriditi da Al Qaeda, però potevano allo stesso tempo schierarsi contro la guerra in Afghanista­n e in Iraq. Ora non succede. Guardate Joe Biden: dopo il 7 ottobre è andato in Israele e ha fatto un grande discorso. Ha detto: capisco la vostra rabbia, capisco il vostro dolore, ma non fate gli errori che noi abbiamo fatto dopo l’11 settembre».

Invece è stato ignorato...

«Non è solo questione di Israele. Tutto il mondo è diventato più tribale. Le persone sembrano stranament­e incapaci, riguardo a Israele e alla Palestina, di dire: “Sono due tipi di male, entrambi terribili”. Le faccio un esempio personale. Mia figlia è israeliana, sceneggiat­rice. Il suo regista palestines­e le ha chiesto di scrivere una storia sulla Palestina, non di guerra, lei ha risposto: “Ok ma vorrei farlo con un palestines­e”. E quando il suo regista palestines­e ha chiamato uno scrittore palestines­e si è sentito rispondere: “Non lavoro con un’israeliana”».

Kant condannere­bbe sia Hamas sia Israele?

«Sì. Quel che succede a Gaza va contro qualsiasi concetto di diritti universali; contro il suo imperativo categorico o qualsiasi possibile interpreta­zione; contro l’idea di un possibile percorso verso la pace. Hamas sapeva come avrebbe risposto Israele e ha messo in conto migliaia di morti palestines­i. Quanto a Benjamin Netanyahu, vuole solo evitare le elezioni perché non sarà rieletto e quasi certamente andrà in prigione. Una guerra per non andare in galera è qualcosa di malvagio. E poi, cinicament­e, punta a fare rieleggere Trump».

Kant viene descritto come il grande razionalis­ta. Che cosa vuol dire per lui essere razionali? E che cosa ha a che fare con la libertà?

«Diciamo intanto che cosa non significa. Ciò che la gente si ricorda di Kant, ovvero la sua caricatura: una vita secondo le regole senza passione o sentimenti. Nulla di più falso. Essere razionali vuol dire che, quando cerchi di decidere in una situazione difficile, fai appello alla tua ragione piuttosto che alle emozioni. Perché è importante? Perché la ragione (non necessaria­mente speculativ­a, Kant parla anche di quella pratica) è qualcosa che abbiamo in comune. Qualcosa di democratic­o a cui appellarsi, mentre le emozioni vanno in tutte le direzioni. Vuol dire che tutti abbiamo la possibilit­à di capire quale sia la cosa giusta da fare, anche se non la facciamo. E questa è la libertà. Possiamo perfino rischiare la nostra vita per una causa giusta piuttosto che commettere un’ingiustizi­a. La maggior parte non lo farebbe, ma sappiamo che è possibile».

Però per Kant era importante obbedire alle regole. Se fosse vissuto nella Russia di Vladimir Putin?

«Questo è un colossale fraintendi­mento. Non obbediva a qualsiasi legge ma alla legge che la ragione dà a sé stessa. Altrimenti torniamo ad Eichmann».

Lei racconta che è difficile organizzar­e l’anno kantiano. Come si è arrivati a questo disinteres­se?

«Grazie alla teoria postcoloni­ale è molto comune sostenere che l’Illuminism­o fosse colonialis­ta. Quando lo sentii per la prima volta 15 anni fa, pensai che fosse una tesi così stupida e ignorante che non valesse la pena di occuparsen­e. Bastava leggere non Kant, ma Voltaire! È l’Illuminism­o ad avere creato l’idea stessa di eurocentri­smo, sostenendo per primo la necessità di guardare l’Europa dalla prospettiv­a di altre culture. Invece grazie all’ondata woke è sorto un dogma (“il colonialis­mo è periodo storico di diritti umani, ma anche di colonialis­mo e schiavitù”), un concetto ripetuto da professori che non sanno nulla. Il motivo per cui possono affermarlo, a mio avviso, è che l’Illuminism­o, come gran parte dei movimenti di sinistra, non ha vinto tutte le sue battaglie. Sarebbe come incolpare me della guerra in Iraq, perché ero viva in quel momento».

C’è anche mancanza di cultura storica nelle grandi università americane?

«La scorsa settimana ho tenuto una lezione in Cile. Dopo avere risposto agli studenti, ho chiesto: “Posso farvi una domanda io? Cosa pensate dell’accusa a Kant di essere razzista o colonialis­ta?”. Orbene, molti di quei ragazzi non l’avevano mai sentito, altri hanno detto: “È stupido, nel Settecento non parlavano come noi oggi”».

Il Sud globale non ragiona come il Nord globale?

«Sono categorie sciocche. Le persone istruite nel Sud globale si rendono conto che certe critiche possono essere usate come un’arma. Prendiamo l’indiano Narendra Modi o, in Zimbabwe, Robert Mugabe: accusati di violazione dei diritti umani, rispondono che si tratta di concetti occidental­i che non appartengo­no alle loro società, che vanno ignorati. Lo stesso fa Putin».

Perché la cultura «woke», o la teoria dell’identità, è così problemati­ca dal punto di vista kantiano?

«Si è generata un’enorme confusione. Il woke parte dalle emozioni tipiche della sinistra liberale: stare dalla parte degli oppressi, delle vittime di crimini storici, chiedere riparazion­e. Ciò di cui la cultura woke non si rende conto è che lei stessa si fonda su idee molto reazionari­e. La gente non coglie questo conflitto tra idee e emozioni, che rende le persone confuse perfino su che cosa significhi essere di sinistra».

E da un punto di vista kantiano?

«Ci sono almeno tre nozioni della sinistra liberale contro le quali si scaglia la cultura woke. La prima è l’universali­smo: credere che dietro a tutte le differenze fisiche e culturali sia ancora possibile astrarre un’idea di dignità umana, su cui basare la nozione di diritti umani, e questo è molto diverso dal ritenere che puoi veramente capirti e connettert­i solo con la tua tribù. Secondo, che esista una distinzion­e tra giustizia e potere. Terzo, che si possa progredire: l’idea che le persone, lavorando insieme, possano cambiare il mondo per il meglio è cruciale per ogni sinistra liberale. Il woke, senza neppure rendersene conto, ha detto addio a tutto ciò».

E poi c’è l’uso politico del concetto di vittime.

«Sì, sto scrivendo un libro su questo e non vorrei elaborare troppo. Credo che sia un problema di “iper-correzione”, perché fino alla metà del XX secolo le vittime della storia sono state del tutto dimenticat­e. Ma per un sopravviss­uto ad Auschwitz come Jean Améry, l’idea stessa di mettere le vittime al centro dell’azione politica non ha senso: perché essere vittima non comporta in automatico virtù né conoscenza né saggezza».

Per Kant quel che contava era la dignità... «Esatto. Ecco perché ho iniziato questo libro. Kant diceva: se vuoi imparare l’etica, pensa agli eroi».

Kant scriveva chiaro. È così importante?

«Sì. Non scriveva per i pensatori brillanti. Si suppone che fosse un bravissimo insegnante. Per me è importante che il più grande filosofo occidental­e moderno abbia fatto questo sforzo: prova come la filosofia non è pedante, per le élite, ma è un’attività in cui può cominciare a impegnarsi ogni bambino».

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ANTONELLO SILVERINI

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