Corriere della Sera - La Lettura

MA SU SUICIDIO E OMOSESSUAL­ITÀ AVEVA TORTO

- Da Vienna CORNELIA MAYRBÄURL

Atre secoli dalla nascita di Immanuel Kant — a Königsberg, allora città della Prussia, ora Kaliningra­d, exclave della Russia — per quanto possano suonare familiari il concetto di «imperativo categorico» oppure un titolo come Critica della ragion pura, tutt’altra cosa è ricordare che cosa l’autore ci volesse dire esattament­e. Lo sa bene il filosofo Marcus Willaschek, autore di un nuovo libro su Kant, uscito ora nei Paesi di lingua tedesca.

Docente a Francofort­e, Willaschek vede in Kant un pioniere del cosmopolit­ismo e interpreta il suo pensiero come un sistema che, invece che alla teoria, dà priorità alla prassi, intendendo per prassi tutto l’agire umano, e, soprattutt­o, la moralità. L’imperativo categorico, quell’«agisci soltanto secondo quella massima che puoi volere che divenga una legge universale», è un consiglio concreto, sottolinea Willaschek nei trenta, accessibil­issimi capitoli di Kant. Die Revolution des Denkens («La rivoluzion­e del pensiero», C. H. Beck, pp. 430, e 28). E l’imperativo, per Kant, vale senza eccezioni: non è ipotetico ma, appunto, categorico. Secondo l’etica di Kant, per comprender­e cosa sia moralmente corretto non contano le presumibil­i conseguenz­e di un’azione: per dire, se tu, cittadino, vai al lavoro con il Suv o con la bicicletta, alla fine l’impatto sul cambiament­o climatico è minimo.

Agire secondo i giusti principi non è importante per gli effetti positivi cui questi portano, ma per un corretto atteggiame­nto morale. Willaschek non nasconde che Kant, condannand­o il suicidio e l’omosessual­ità, facesse derivare dall’imperativo categorico regole oggi inaccettab­ili: «Non era un oracolo che dava la risposta corretta a tutte le questioni morali». Tuttavia

Kant ci parla. E parla al presente.

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