Corriere della Sera - La Lettura
Vive nel corpo di Kafka la vera metamorfosi
Mauro Covacich celebra lo scrittore attraversandone una fisicità insieme animale — cani, scimmie, talpe, topi, naturalmente l’insetto del racconto più celebre — e umana, segnata dal digiuno e dal desiderio
Il corpo a corpo con Franz Kafka comincia con un pugno in testa. Non è una lotta, ovviamente sarebbe impari. Non vi è certo alcuna ostilità. Né d’altra parte l’intenzione benevolmente educativa di dare una lezione con una lavata di capo. Kafka scuote, e l’incontro con lui dà quello scossone violento che non tramortisce bensì spiazza, sbalordisce e ridesta.
Forte di questo effetto che non si dimenticherà tanto presto, il triestino Mauro Covacich avvia il suo corpo a corpo con Kafka. Memore di quell’appunto che lo stesso Franz ventenne faceva all’amico e compagno di letture Oskar Pollak: la letteratura non vuole compiacerti o renderti felice, «se il libro che leggiamo non ci sveglia con un pugno sul cranio a che serve leggerlo?».
Coraggio e niente paura, dunque. Coraggio perché il libro che vale la pena di leggere sarà quello che invita a guardare dove vien voglia di distogliere lo sguardo. Nessun timore però, perché il colpo assestato, potente come quello di «un’ascia sul mare ghiacciato» — sono sempre le parole di Kafka citate da Covacich — farà sgorgare, oltre che quella enigmatica e magmatica e fluttuante verità che tutta la grande letteratura cattura nella sua mutevole forma, una profonda comunione tra l’autore e il lettore. Tra l’autore Kafka e il suo lettore Covacich. Tra il dettato della letteratura e il Kafka lettore giovanilmente pronto a parare il colpo di quel pugno e di quell’ascia. Tra Kafka e ciascuno dei suoi lettori, perché «fanno così i giganti, si affacciano alla nostra stanza attraverai
Parallele Aveva praticato ginnastica con il metodo Müller fino a qualche mese dopo la diagnosi della tubercolosi che lo avrebbe ucciso a 40 anni
so i loro libri e parlano proprio a noi», osserva Covacich in un libretto tutto scintillante di sprazzi rivelatori.
È con la giusta e condivisa devozione, nonché con la debita umiltà — si parva licet, si parva licet, si parva licet..., ripetuto tre volte come il mea culpa della liturgia — che Covacich si appresta a un confronto fraterno e sportivo con il gigante Kafka. Un corpo a corpo, appunto, dove la temerarietà dell’impresa è dissolta dall’irriducibile concretezza del corpo. Il corpo esile e scarno di Kafka, privo del minimo filo «di grasso benedetto», così descrisse il praghese la propria complessione, «da cui trarre un po’ di calore, con cui alimentare lo spirito oltre il suo fabbisogno quotidiano senza danneggiare l’intero organismo». Un corpo sfuggente, allenato negli anni della giovinezza e della salute con il metodo Müller, la sequenza di esercizi approntata dal ginnasta danese che impazzò nell’Europa primonovecentesca e che Kafka praticò con solerzia fino a qualche mese dopo la diagnosi della tubercolosi che se lo sarebbe portato via neanche quarantunenne cent’anni fa. Un corpo alle cui oscure leggi e cui implacabili bisogni neppure quell’atleta dello spirito — che beveva come un uccellino, non mangiava carne ma era ghiotto di riso e latte con pezzetti di cioccolato — poteva sfuggire.
Sul corpo insiste con profonda intelligenza e stimolante consequenzialità Covacich che, non dimentichiamolo, fu autore vent’anni fa di quell’A perdifiato (ristampato dalla nave di Teseo nel 2018) che è a tutt’oggi libro culto fra i maratoneti. Il corpo maledettamente animale nascosto sotto i vestiti.
«Smetteremo mai di essere animali», si chiede rievocando la fauna che popola le pagine di Kafka: cani, scimmie, talpe, topi che a turno impersonano i vari alter ego dell’autore, per non dire di quell’Ungeziefer, nella vulgata uno scarafaggio ma alla lettera un qualsiasi insetto o bestiaccia molesta, di cui Gregor Samsa nasconde la corazza sotto la camicia nella Metamorfosi. Il corpo dell’artista del digiuno che più ancora che prefigurare le nevrosi alimentari delle anoressiche fu «il primo oppositore del consumismo». Il corpo Castello cui K. che vi si aggira dentro visceralmente appartiene senza averlo scelto e senza mai conoscerlo davvero. Il corpo Tana ,o Corps étranger audacemente messo in luce da un’endoscopia — suggerita a Covacich dalla video installazione dell’artista libanese Mona Hatoum — per rivelarsi nei suoi cunicoli, anfratti e meandri più segreti come «la cosa più nostra, la cosa più estranea». Il corpo del padre, che nella cabina-spogliatoio di una scuola di nuoto sulla Moldava sovrastava e opprimeva il figliolo con la sua nuda fisicità. Il corpo della legge: «Discinta, sconcia, impresentabile», monito reiterato e incomprensibile dello stigma della colpa. Il corpo erotico, costantemente rimbalzato tra forze contrarie — l’attrazione sessuale e la repulsione per la carne — stretto fatalmente nella rete di «donne mancine» àla Peter Handke: Felice, Milena, Dora, ma anche Frieda, Leni, Olga, Pepi… concepite e accarezzate letterariamente. Tra l’altro val la pena ricordare che lo stesso Handke — citato in appendice con gratitudine da Covacich insieme a un lungo corteo di kafkiani — in gioventù (era il 1974) si interrogò sulla proverbiale bellezza di Kafka, immaginò di scrutarlo con sufficiente pazienza ma senza eccessiva insistenza, per non ferirlo; si chiese se portasse i segni dell’acne giovanile e si domandò come amasse le donne, curiosità che ritroviamo in Covacich, plausibile nei confronti di un autore così oscuramente conturbante e intriso di desiderio.
Vale anche la pena di sottolineare che Covacich, confida nel libro, non ha mai letto i libri di Kafka — cresciuti di volume per la quantità di orecchie e segnalibri frapposti tra le pagine — rilassato sul divano, bensì sempre, busto eretto e gambe unite, seduto alla scrivania: costringendo il corpo a una postura composta. Laddove si alza dal tavolo e corre sul posto per interrogare i luoghi — la Trieste dove Kafka potrebbe aver incrociato James Joyce o Italo Svevo, la Sirem dove furono composti gli Aforismi di Zürau — si ritrova con un pugno di mosche: davanti a muri silenti e a un paesaggio desolato intriso di pioggia.
Il corpo certo su cui merita insistere è semmai il corpo della scrittura, che è lì arcanamente chiusa, depositaria «di un’eccedenza che resiste nella sua traccia», osserva il Covacich che studiò Gilles Deleuze, eppure aperta all’altro, a noi, a te: offerta allo sguardo di un altro, «generata dall’attesa di quello sguardo». A costo di aprirgli gli occhi con un pugno in testa.