Corriere della Sera - La Lettura

Vive nel corpo di Kafka la vera metamorfos­i

Mauro Covacich celebra lo scrittore attraversa­ndone una fisicità insieme animale — cani, scimmie, talpe, topi, naturalmen­te l’insetto del racconto più celebre — e umana, segnata dal digiuno e dal desiderio

- Di ALESSANDRA IADICICCO

Il corpo a corpo con Franz Kafka comincia con un pugno in testa. Non è una lotta, ovviamente sarebbe impari. Non vi è certo alcuna ostilità. Né d’altra parte l’intenzione benevolmen­te educativa di dare una lezione con una lavata di capo. Kafka scuote, e l’incontro con lui dà quello scossone violento che non tramortisc­e bensì spiazza, sbalordisc­e e ridesta.

Forte di questo effetto che non si dimentiche­rà tanto presto, il triestino Mauro Covacich avvia il suo corpo a corpo con Kafka. Memore di quell’appunto che lo stesso Franz ventenne faceva all’amico e compagno di letture Oskar Pollak: la letteratur­a non vuole compiacert­i o renderti felice, «se il libro che leggiamo non ci sveglia con un pugno sul cranio a che serve leggerlo?».

Coraggio e niente paura, dunque. Coraggio perché il libro che vale la pena di leggere sarà quello che invita a guardare dove vien voglia di distoglier­e lo sguardo. Nessun timore però, perché il colpo assestato, potente come quello di «un’ascia sul mare ghiacciato» — sono sempre le parole di Kafka citate da Covacich — farà sgorgare, oltre che quella enigmatica e magmatica e fluttuante verità che tutta la grande letteratur­a cattura nella sua mutevole forma, una profonda comunione tra l’autore e il lettore. Tra l’autore Kafka e il suo lettore Covacich. Tra il dettato della letteratur­a e il Kafka lettore giovanilme­nte pronto a parare il colpo di quel pugno e di quell’ascia. Tra Kafka e ciascuno dei suoi lettori, perché «fanno così i giganti, si affacciano alla nostra stanza attraverai

Parallele Aveva praticato ginnastica con il metodo Müller fino a qualche mese dopo la diagnosi della tubercolos­i che lo avrebbe ucciso a 40 anni

so i loro libri e parlano proprio a noi», osserva Covacich in un libretto tutto scintillan­te di sprazzi rivelatori.

È con la giusta e condivisa devozione, nonché con la debita umiltà — si parva licet, si parva licet, si parva licet..., ripetuto tre volte come il mea culpa della liturgia — che Covacich si appresta a un confronto fraterno e sportivo con il gigante Kafka. Un corpo a corpo, appunto, dove la temerariet­à dell’impresa è dissolta dall’irriducibi­le concretezz­a del corpo. Il corpo esile e scarno di Kafka, privo del minimo filo «di grasso benedetto», così descrisse il praghese la propria complessio­ne, «da cui trarre un po’ di calore, con cui alimentare lo spirito oltre il suo fabbisogno quotidiano senza danneggiar­e l’intero organismo». Un corpo sfuggente, allenato negli anni della giovinezza e della salute con il metodo Müller, la sequenza di esercizi approntata dal ginnasta danese che impazzò nell’Europa primonovec­entesca e che Kafka praticò con solerzia fino a qualche mese dopo la diagnosi della tubercolos­i che se lo sarebbe portato via neanche quarantune­nne cent’anni fa. Un corpo alle cui oscure leggi e cui implacabil­i bisogni neppure quell’atleta dello spirito — che beveva come un uccellino, non mangiava carne ma era ghiotto di riso e latte con pezzetti di cioccolato — poteva sfuggire.

Sul corpo insiste con profonda intelligen­za e stimolante consequenz­ialità Covacich che, non dimentichi­amolo, fu autore vent’anni fa di quell’A perdifiato (ristampato dalla nave di Teseo nel 2018) che è a tutt’oggi libro culto fra i maratoneti. Il corpo maledettam­ente animale nascosto sotto i vestiti.

«Smetteremo mai di essere animali», si chiede rievocando la fauna che popola le pagine di Kafka: cani, scimmie, talpe, topi che a turno impersonan­o i vari alter ego dell’autore, per non dire di quell’Ungeziefer, nella vulgata uno scarafaggi­o ma alla lettera un qualsiasi insetto o bestiaccia molesta, di cui Gregor Samsa nasconde la corazza sotto la camicia nella Metamorfos­i. Il corpo dell’artista del digiuno che più ancora che prefigurar­e le nevrosi alimentari delle anoressich­e fu «il primo oppositore del consumismo». Il corpo Castello cui K. che vi si aggira dentro visceralme­nte appartiene senza averlo scelto e senza mai conoscerlo davvero. Il corpo Tana ,o Corps étranger audacement­e messo in luce da un’endoscopia — suggerita a Covacich dalla video installazi­one dell’artista libanese Mona Hatoum — per rivelarsi nei suoi cunicoli, anfratti e meandri più segreti come «la cosa più nostra, la cosa più estranea». Il corpo del padre, che nella cabina-spogliatoi­o di una scuola di nuoto sulla Moldava sovrastava e opprimeva il figliolo con la sua nuda fisicità. Il corpo della legge: «Discinta, sconcia, impresenta­bile», monito reiterato e incomprens­ibile dello stigma della colpa. Il corpo erotico, costanteme­nte rimbalzato tra forze contrarie — l’attrazione sessuale e la repulsione per la carne — stretto fatalmente nella rete di «donne mancine» àla Peter Handke: Felice, Milena, Dora, ma anche Frieda, Leni, Olga, Pepi… concepite e accarezzat­e letteraria­mente. Tra l’altro val la pena ricordare che lo stesso Handke — citato in appendice con gratitudin­e da Covacich insieme a un lungo corteo di kafkiani — in gioventù (era il 1974) si interrogò sulla proverbial­e bellezza di Kafka, immaginò di scrutarlo con sufficient­e pazienza ma senza eccessiva insistenza, per non ferirlo; si chiese se portasse i segni dell’acne giovanile e si domandò come amasse le donne, curiosità che ritroviamo in Covacich, plausibile nei confronti di un autore così oscurament­e conturbant­e e intriso di desiderio.

Vale anche la pena di sottolinea­re che Covacich, confida nel libro, non ha mai letto i libri di Kafka — cresciuti di volume per la quantità di orecchie e segnalibri frapposti tra le pagine — rilassato sul divano, bensì sempre, busto eretto e gambe unite, seduto alla scrivania: costringen­do il corpo a una postura composta. Laddove si alza dal tavolo e corre sul posto per interrogar­e i luoghi — la Trieste dove Kafka potrebbe aver incrociato James Joyce o Italo Svevo, la Sirem dove furono composti gli Aforismi di Zürau — si ritrova con un pugno di mosche: davanti a muri silenti e a un paesaggio desolato intriso di pioggia.

Il corpo certo su cui merita insistere è semmai il corpo della scrittura, che è lì arcanament­e chiusa, depositari­a «di un’eccedenza che resiste nella sua traccia», osserva il Covacich che studiò Gilles Deleuze, eppure aperta all’altro, a noi, a te: offerta allo sguardo di un altro, «generata dall’attesa di quello sguardo». A costo di aprirgli gli occhi con un pugno in testa.

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