Corriere della Sera - La Lettura
Ilcancrodimiopadre èquellodelBrasile
C’è anche un urlo nelle sue incisioni. «Sì, volevo rendere quei lavori “udibili”, come se potessimo ascoltarli».
Lo specchio nero? Cosa significa?
«È un’antica invenzione veneziana, considerata in qualche modo diabolica. Il “mio” è a misura d’uomo e deformante. Chiunque vi si ponga davanti si domanderà: chi è il mio nemico? La risposta è nel proprio riflesso deformato e oscurato. Potremmo essere i testimoni della nostra scomparsa, ma anche gli autori».
È vero che i volti disperati nelle incisioni sono quelli dei suoi amici?
«Sì, sono i miei vicini di casa a Los Angeles. Fotografati per ore, costretti a mantenere la posizione...».
Le loro pose sembrano quelle di un «compianto sul Cristo morto».
«E infatti mi sono molto ispirata al gruppo scultoreo di Niccolò dell’Arca a Bologna».
Intento religioso?
«La connotazione religiosa, quasi mistica, c’è. Poi ci sono gesti che il nostro Dna culturale può vedere, metabolizzare e capire meglio. Tra le incisioni c’è quella dell’uomo — è il mio amico Nigel — con le mani sul volto: mi sono immaginata qualcuno come Ponzio Pilato nel momento in cui si dice: che cosa ho fatto? Ma potrebbe essere anche il leader di una potenza globale e nucleare che ha appena schiacciato il bottone. Si rende conto che indietro non si torna. È l’attimo dell’omnicidio».
Nelle incisioni compaiono anche le figure degli amanti.
«Tra le prime vittime dell’estinzione ci sono loro, perché quando comanda l’odio non c’è posto per l’amore. Il mio è anche un richiamo agli amanti nella bufera di Dante».
Chi sono le sue fonti di ispirazione?
«Los desastres de la guerra di Francisco Goya e Guernica di Pablo Picasso. Imprescindibili anche perché c’è così poco nell’arte classica sull’orrore della guerra. Solitamente nei dipinti il conflitto è esaltato e l’orrore riservato ai nemici sconfitti. Come dice il filosofo Jacob Rogozinski nel suo recentissimo libro (The Logic of Hatred, ndr), siamo assuefatti all’odio. C’è un meccanismo culturale, industriale finanziario di mitizzazione della violenza, che è stata normalizzata. Basta guardare le piattaforme di streaming: immagini oscene si susseguono. E intanto mangiamo pop corn...».
Perché «Any War Any Enemy»?
«Volevo mostrare il momento di orrore che è di tutti i conflitti, e allo stesso tempo sottolineare il fatto che si tratta dell’ultima guerra, quella nucleare, quella dell’estinzione. Che poi anche qui c’è un problema di linguaggio perché quella nucleare non è guerra, è omnicidio, non c’è battaglia, ci sono solo esplosioni di bombe migliaia di volte più potenti di quella di Hiroshima. Basta premere il bottone. Tra schiacciarlo e non farlo passano tre elementi: la lucidità, la consapevolezza che dall’altra parte ci sono esseri umani e la paura della guerra».
Ha visto il film «Oppenheimer»?
«Sì. È diretto magistralmente da Christopher Nolan. Ma di che cosa parla? Dell’eroe che ha creato un’arma di distruzione di massa. Il soggetto è lui e la nostra empatia è per lui, non per chi fu annientato dalla sua invenzione. E il paradosso è che nemmeno ce ne accorgiamo! Questa cosa ci urla in faccia e non la sentiamo!». Suo marito lo ha visto?
«No, Werner non guarda molti film e nemmeno io. Leggiamo molto».
È in arrivo la monografia sul suo percorso artistico, firmata da Silvia Burini e Giuseppe Barbieri per Skira.
«La presenteremo giovedì 11 a Venezia: sono molto emozionata. Il libro contiene oltre duecento immagini».
Lei è nata in Russia, che cosa pensa della guerra in Ucraina?
«Ho lasciato la Russia quando avevo vent’anni, sono americana. Amo gli Stati Uniti e la Russia, le due cose non sono incompatibili. Cosa penso della guerra... Quando è scoppiata ero completamente devastata. Non sarebbe mai dovuta cominciare come qualsiasi altro scontro. C’era solo una cosa da fare ed era comunicare per evitarla».
Dopo tutte queste sofferenze e minacce lei ha ancora speranza?
«Sì, e infatti la terza parte del mio lavoro si chiamerà Reversal, l’inversione: abbiamo bisogno di speranza e di amore che sono l’antidoto all’odio. Ci sto lavorando».
L’arte è la risposta?
«No, la risposta è la demilitarizzazione, la risposta è la pace. Abbiamo disperatamente bisogno di invertire la rotta. Il video si concluderà così: All or None, tutti o nessuno».
JÈ atteso in Laguna José Henrique Bortoluci col libro d’esordio: la storia personale incontra quella nazionale. «Serve una nuova decolonizzazione»
osé Henrique Bortoluci, atteso a Venezia al festival Incroci di civiltà, è sullo schermo di Zoom alla scrivania nel suo alloggio parigino, sorridente, cuffie alle orecchie, barba incolta. Il professor Flavio Gregori traduce traghettando i nostri discorsi. Il suo libro Sulle strade di mio padre (Iperborea) è un ibrido riuscito che intreccia la storia del genitore Didi, camionista e viaggiatore, e quella del Brasile, in particolare quel periodo della dittatura militare che nei primi anni Settanta diede vita ad alcune grandi opere tra le quali la Transamazzonica o Br230, una strada che avrebbe dovuto collegare «gli uomini senza terra» del Nordest e «la terra senza uomini» della foresta pluviale, periodo che l’autore definisce del «boom collasso».
Quella strada monumentale portò nel cuore dell’Amazzonia brasiliana coloni violenti, fazendeiros e deforestatori selvaggi, cercatori d’oro armati, provocando la distruzione di natura e popoli. La memoria privata del padre, quella che il reporter polacco Ryszard Kapuscinski chiamava «storia viva», s’innerva con quella della nazione latino-americana.
Gli chiedo com’è nata l’idea del libro. «Ascoltando le storie di mio padre. Da lui ho ricevuto un’educazione alla narrazione che mescolava le avventure private alle informazioni che mi dava sul Brasile. Poi da docente universitario ho viaggiato molto e mi sono occupato per studio della storia del mio Paese. Già da qualche anno avevo realizzato l’idea di intrecciare pubblico e privato, le storie che ascoltavo da mio padre avevano un’importante connessione con l’aspetto generale, politico e sociale. Quindi l’idea non viene da una postura letteraria, non è autofiction o narrativa basata su principi formali, ma viene da una sorta di impegno personale. Così ho provato a scrivere qualcosa di diverso dalla scrittura accademica che uso in genere nel mio lavoro universitario».
Il suo — gli dico — è un ibrido narrativo che ha molti aspetti interessanti, quello centrale è proprio il racconto del padre, l’epica del camionista, il suo valore sociale, l’orgoglio working class . Il viaggio di nozze dei genitori, «la luna di miele in camion» è commovente! Ma c’è anche il senso di colpa dell’essere ormai parte di un’élite intellettuale. Gli ricordo il libro Melanconia di classe (Blu Atlantide) di Cyntia Cruz. Lo conosce, annuisce, poi parla veloce, con passione: «C’è stata una scelta stilistica, da subito, per mantenere la distanza, questo gap generazionale ma anche sociale; ho usato la mia voce e quella di mio padre nel trattamento del linguaggio, alternandole: sono entrambe finzioni anche se si basano su elementi fattuali. La distanza tra la classe sociale alla quale appartengo oggi e quella di mio padre è una parte centrale del libro, ma non si traduce in caratteri socio-psicologici come il senso di vergogna che invece si trova ne Il posto (in Italia pubblicato da L’Orma, ndr) di Annie Ernaux, non c’è il sentimento dell’ira di Édouard Louis; c’è però la forma della colpa. È questa la base per costruire un ponte tra sé e il padre che si ritrova nella narrativa dei migranti, mentre sento più vicina Elena Ferrante, il personaggio di Lenù in particolare, una sorta di portavoce della complicità del figlio».
Nelle pagine l’orgoglio working class è molto forte, in un passo scrive: «Ci ho messo del tempo a rendermi conto che il mio successo a scuola non era soltanto mio, ma una specie di conquista famigliare». José Henrique dice allora che voleva essere leale con la classe alla quale appartiene la sua famiglia, «è anche la mia classe, provo un senso di orgoglio per questo, per i miei genitori. Loro hanno anche amici tra i ricchi, non hanno mai dovuto scusarsi per non appartenere a quel gruppo sociale più abbiente, non si sono mai sentiti sottomessi; invece, sento nel mio mondo di origine e in loro una grande ricchezza di carattere culturale, mia nonna non è andata a scuola ma sa leggere, ha una memoria straordinaria ed è una grande raccontatrice di storie. Provo un sentimento di amore per i miei genitori e nei confronti di mio padre quando ha dovuto affrontare la sua malattia».
Bortoluci mette in relazione il cancro del padre, che definisce «occupazione del territorio corporeo, un Fitzcarraldo biologico», con la storia di violenze che anche negli ultimi anni ha attraversato il suo Paese, soprattutto durante il governo Bolsonaro, perché — spiega nel libro — «ogni società contribuisce alla storia universale con la propria collezione di macerie». Annuisce: «Sì, è vero, quando ho cominciato a immaginare il libro cercavo di capire come connettere il piccolo, la dimensione microstorica di una persona, con il grande di una storia nazionale, come tradurre un’epica in grande scala o nel piccolo delle vicende individuali, e la metafora che avevo in mente era la ferita del corpo visibile come in quella topografica della strada che è una ferita che percorre il Paese. Nel corso della scrittura mio padre si è ammalato e per necessità ho iniziato a studiare la malattia, parlare con i medici, però il cancro si è anche manifestato come metafora della condizione del Paese, perché riesce a cogliere quel deteriorarsi nella modalità specifica della metastasi, del moltiplicarsi incontrollato del fenomeno di distruzione del corpo che è quello che succede in Brasile».
Gli dico che ho seguito le ultime elezioni presidenziali, con un protagonismo incredibile dei popoli nativi, e dopo la vittoria di Lula, oggi Marina Silva è ministro dell’Ambiente, Joênia Wapichana presidente Funai (Fundação Nacional dos Povos Indígenas), Sonia Guajajara, leader della sinistra radicale, ministro dei Popoli indigeni. C’è una nuova speranza per l’Amazzonia? «C’è più speranza di prima — ammette —. Non c’è mai stata una coscienza così elevata della complessità dei problemi, contemporaneamente i problemi sono diventati enormi e molto più complicati per la presenza di mafia, corruzione pubblica, utilizzo scorretto da parte delle forze di polizia, interessi delle lobby, agrobusiness, capitali internazionali... tutti questi elementi si traducono in una complessità di approccio. La politica ha comunque invertito la rotta, questo è visibile nel blocco della forestazione, che decresce; ma è solo il primo passo. Ora bisogna introdurre un nuovo modello di sviluppo dell’Amazzonia, tenendo conto che lo sfruttamento delle foreste è pericoloso, non bisogna deforestare ma riforestare, creare una road map politico-economica complessiva, e insieme fare un lavoro culturale per mettere quel territorio al centro della coscienza nazionale, smettere di pensarlo come un luogo da sfruttare e colonizzare, quindi fare un nuovo lavoro di decolonizzazione».