Corriere della Sera - La Lettura
Un sorriso salva i romanzi
Yiyun Li
Spesso una lingua straniera offre lo spazio mentale e l’indipendenza necessaria per raccontare le proprie storie con più libertà. Lo dimostra anche a Yiyun Li, che è nata a Pechino nel 1972 ed è arrivata negli Stati Uniti a metà degli anni Novanta per un dottorato in Immunologia. Terminati gli studi, ha abbandonato non solo la carriera scientifica ma anche la lingua madre. Si è iscritta all’Iowa Writers’ Workshop ed è diventata una scrittrice dallo stile unico che ha finora pubblicato tre raccolte di racconti, un memoir e cinque romanzi tra cui Dove le ragioni finiscono e Il libro dell’oca, ora in uscita in Italia. È la storia di un’amicizia profonda tra due ragazzine che abitano nella campagna francese del secondo dopoguerra: Fabienne, brillante e cupa, acuta e rassegnata, e Agnès, più affabile e capace di adattarsi ai cambiamenti. Insieme decidono di scrivere un libro che ritrae la loro vita. Lo pubblicano grazie al direttore dell’ufficio postale locale, «un uomo brutto, dall’aria malaticcia». Diventa un successo, ma «a Parigi fu deciso che il libro offriva uno scorcio di vita rurale, una vita fantastica e spaventosa. In seguito, a Londra, un analogo gruppo di persone avrebbe deciso che lo scorcio era quello della Francia durante l’occupazione americana, una realtà folle e ripugnante oltre l’immaginabile». Le due rimangono sorprese perché non pensavano che il proprio mondo fosse tanto terribile.
Yiyun Li ci fa calare con grande immediatezza nei toni e nelle sintassi di quell’età e ritrae le due protagoniste proprio come le preadolescenti sono nella realtà: piene di emozioni e giudizi, ma senza il vocabolario e il linguaggio che le permette di rivelarsi in modo completo. «Quando ho iniziato a scrivere — dice — avevo la tendenza a costruire soprattutto personaggi adulti, forse perché preferivo immaginare persone con esperienze diverse dalla mia. Da sempre sono curiosa di leggere nei romanzi come le ragazze vivono la propria pubertà, quel periodo difficile tra l’infanzia e l’età adulta, quando tutto è colmo di significato, a volte lasciato alla fatalità. Ormai sento di essermi allonta
Voci dall’America. è una scienziata nata in Cina che negli Stati Uniti ha deciso di diventare scrittrice: nel nuovo libro immagina due ragazzine nella Francia del dopoguerra che decidono di pubblicare una storia dolceamara. «Vivendo scopriamo che tragedia e commedia sono intrecciate all’infinito. Più una situazione è terribile, più consente di ridere. È desolante volere addolcire la durezza della vita o cercare il lato positivo di ogni cosa: ne deriva un’arte falsata o insipida; cioè bella, inoffensiva e inutile». Proprio dalla Francia arriva la trasposizione in «comics» de «La strada» di Cormac McCarthy, mentre A. J. Finn si cimenta con un giallo psicologico
Mille anni di preghiere I girovaghi Più gentile della solitudine (2015) mentre per NN Caro amico dalla mia vita scrivo a te nella tua (2018), Ragazzo d’oro, ragazza di smeraldo (2019), Dove le ragioni finiscono (2021) e Se vado via (2022). Nel 2022 Li ha vinto il premio Pen/ Malamud alla carriera. Il regista Wayne Wang ha tratto dai suoi libri due film nata abbastanza da quell’età da poterne scrivere sia dall’interno, come chi ricorda l’esperienza, sia dall’esterno, come un’osservatrice».
La storia di Agnès e Fabienne riesce a farci sorridere anche nei momenti di tristezza. Sono due ragazze che non hanno praticamente nulla eppure non vogliono essere protette dagli adulti. Vivono un mondo proprio e danno sfogo alla loro immaginazione e all’umorismo. Scegliere di raccontarla dal punto di vista di Agnès, la più paziente ma anche ambigua delle due, è stato utile per raggiungere questo risultato?
«Le due amiche lavorano come se fossero un corpo unico, ma sono diversissime. Avere scelto Agnès come narratrice mi ha portato sicuramente qualche vantaggio: la sua posizione è un po’ precaria, le sue emozioni hanno più sfumature; rispetto a Fabienne è un personaggio minore. Di solito sono attratta proprio dai personaggi che danno l’impressione di essere noiosi!».
Rispetto ai precedenti, «Il libro dell’oca» sembra quello con più scene comiche di tutti. Cos’è successo?
«Più viviamo, più scopriamo che commedia e tragedia sono intrecciate all’infinito. Più una situazione è terribile, più consente di ridere. Negli anni suppongo di aver trovato sempre più motivi per ridere anche nei momenti più cupi».
Ha voglia di dirci qualcosa di più?
«Di recente ho avuto un lutto enorme. Qualcuno l’ha reso pubblico e di conseguenza ho ricevuto un mucchio di lettere gentili ma anche tante strane da parte di sconosciuti. Uno mi ha detto di aver deciso di dedicarmi un libro e mi chiedeva di trovargli un editore. Un altro aveva storie perfette per me “quindi, per favore, mi chiami prima possibile a questo numero”. Cos’altro posso fare se non ridere?».
«Il libro dell’oca» affronta anche la suddivisione in classi della società. In confronto agli Stati Uniti, in Italia oggi si parla molto meno di questo argomento in parte anche perché la borghesia e la classe operaia sono state drasticamente ridotte rispetto al dopoguerra. Qual è invece la sua sensazione in quanto immigrata cinese?
«Spesso per me le classi sociali si traducono nelle questioni fondamentali di come sostenersi: l’economia, la finanza e le molte possibilità di come guadagnarsi da vivere. Per me uno dei momenti più toccanti del romanzo è quello in cui le amiche discutono della possibilità di trasferirsi a Parigi o addirittura in America, ma non ne hanno i mezzi. Nella Cina comunista le classi sociali erano un tema di discussione costante per cui, secondo la mia esperienza, direi che qui in America le persone tendono a evitare di parlarne o cercano termini diversi».
Il suo romanzo «Dove le ragioni finiscono» — la storia di una madre che immagina un dialogo con il figlio suicida — è senza dubbio una delle opere statunitensi più profonde e sorprendenti di questi ultimi anni. La prima reazione di molti è pensare che sia un libro pieno di tristezza e dolore, quando in realtà è ricco di leggerezza e gioia di vivere. Crede anche lei che il ruolo di un artista sia osservare qualcosa di doloroso, oscuro o addirittura scomparso e riportarlo alla luce con la speranza?
«Sì, è esattamente così. E aggiungo: che senso ha altrimenti scrivere? Per me la cosa più desolante è il bisogno delle persone di addolcire la durezza della vita o cercare il lato positivo di ogni cosa. Tutto questo porta a un’arte falsata o insipida: bella, inoffensiva e inutile».
Lei si è trasferita negli Stati Uniti quando aveva poco più di vent’anni. Oggi si considera un’immigrata asiatica o un’«asiamericana»?
«Ho conservato parte della mentalità di immigrata: laboriosa e relativamente frugale, consapevole di vivere in un Paese dove non ci sono radici profonde o la rete di sicurezza data da famiglie numerose. Ma mi sento soprattutto asiamericana».
In questi ultimi anni la risposta degli asiamericani al razzismo e alla discriminazione è stata forte e discussa in profondità anche tra gli scrittori e i giornalisti. Lei come ha affrontato tutto questo?
«Pongo molta attenzione a queste discussioni ed elaboro le cose con calma. Sono situazioni complesse e ingarbugliate e non ne parlo per forza, se non le ho capite fino in fondo».
E in quale stato d’animo è per quest’anno elettorale?
«Sono in preda alle ansie più cupe!».