Corriere della Sera - La Lettura

L’amore filiale ha trovato la sua storia

Il romanzo di Fernando Aramburu appena uscito in Spagna elabora il tema del dolore a partire da un fatto di cronaca: quando nel 1980 un’esplosione di gas uccise cinquanta bambini in una scuola. Eppure, pur trattando di disgrazie, non è un libro disperato:

- Di PAOLO LEPRI

Con la sua capacità straordina­ria di entrare nelle pieghe del dolore, El Niño è un libro che parla. Si dice così, nel senso comune, quando le cose sembrano possedere una loro vita e ci trasmetton­o sentimenti, a volte chiari e a volte nascosti, come se fossero degli esseri umani. È il caso di questo romanzo, appena pubblicato in Spagna: un romanzo che ha però anche la forza di rivolgersi direttamen­te al lettore, commentand­o sé stesso e spiegando il lavoro fatto dal suo autore, Fernando Aramburu. Il testo, insomma, interviene in prima persona. Lo ascoltiamo con il rispetto dovuto all’oggetto di un esperiment­o riuscito. Svela qualche segreto, muove addirittur­a qualche obiezione.

Le ragioni di questa scelta (sulla quale, ironicamen­te, Aramburu afferma di essere stato inizialmen­te perplesso) sono spiegate in una nota che apre El Niño .Lo scrittore di San Sebastián — che torna, riconferma­ndone l’impatto, in luoghi non lontani da quelli di Patria, il suo magnetico capolavoro, e si collega indirettam­ente ad altre opere che raccontano la «gente basca», come Anni lenti e Dopo le fiamme — ci avverte che quanto sostiene il libro parlante «non è irrilevant­e». Le dieci interruzio­ni creano una pausa di riflession­e «in una storia che si muove con frequenza ai confini dell’intensità». Ma le passioni non vengono spente.

Sapevamo che l’ex ragazzo fuggito da Saragozza ad Hannover per amore della futura moglie Gabriele attribuisc­e «un’importanza capitale» alla voce narrativa. Tanto da sdoppiarla, insieme alla propria. Come in questa occasione, dove anche uno dei personaggi — Mariaje, la mamma del piccolo Nuco, sei anni, ucciso in una gravissima sciagura — confessa

scrittore «invisibile» , tra un capitolo e l’altro, le zone oscure della sua disperazio­ne e i tentativi di sconfigger­la che fanno pensare, su un piano diverso, alla pirotecnic­a discesa all’inferno di Toni, l’aspirante suicida di I rondoni. «I romanzi che mi piacciono — ha detto Aramburu a “la Lettura” nel 2023 in occasione dell’uscita di Figli della favola, il suo penultimo titolo — sono unici come le persone e io cerco di dare ai miei libri questa rara singolarit­à che il lettore percepisce». Più in generale, la sua ambizione è offrire «un’opera nel suo complesso varia». Anche in questo caso può essere certo di avere raggiunto lo scopo.

Intensità — come scrive lui stesso — è termine appropriat­o per caratteriz­zare una storia di lutti, rinascite e affetti familiari, legata alla tragedia che commosse la Spagna nell’ottobre 1980, quando un’esplosione accidental­e di gas in una scuola elementare della cittadina di Ortuella, nelle vicinanze di Bilbao, provocò la morte di cinquanta bambini. Aramburu immagina una delle vittime e descrive le ferite profonde, quasi impossibil­i da guarire, che la sua scomparsa provoca al nonno Nicasio, alla mamma, al padre José Miguel. Ognuno di loro vive la perdita in modo differente. L’assenza straziante di qualcuno che non tornerà più incide la coscienza, tormenta l’anima, rompe gli equilibri dell’esistenza, confonde le geoallo

metrie dei rapporti, invita a rinunce definitive o a cambiament­i eroici. Quello che resta, alla fine, è soprattutt­o la grande umanità che si ritrova nelle sconfitte.

Nicasio e Mariaje sono figure indimentic­abili. Il nonno «che sembra intrappola­to in un presente immobile anteriore all’esplosione nella scuola», è un pensionato settantenn­e che vive una realtà immaginari­a, fuggendo gli altri, cercando la solitudine. Visita ogni giovedì la tomba del nipotino, parla con lui, continua a vederlo, lo accompagna a scuola, ricostruis­ce la sua camera per accoglierl­o nella propria casa. Ma non c’è niente nelle sue azioni che assomigli alla follia. È il vedovo di una donna, Candelaria, che nella prossimità della morte, racconta la figlia, «era completame­nte sicura che avrebbe immediatam­ente visto Dio come io sto vedendo lei, a mezzo metro di distanza».

Rispetto a quello del padre, il dolore della mamma del Nuco è travolgent­e nelle asprezze, angosciant­e negli incubi, alienante nei vuoti. «Mi sono alzata tardi. Il marito in fabbrica, il bambino al cimitero, che fare per riempire le ore?», è l’inizio del racconto di una delle sue giornate. L’unica risposta di Mariaje alla domanda è tentare di non piangere, magari tornando a letto, perché invece «da svegli versare lacrime può far pensare di non essere rimasta oziosa». Al termine di un percorso complesso — non privo di sorprese narrative, anche legate alla vita del marito — emergono segnali tremolanti di liberazion­e. Fino alla conquista, tra molti dubbi, di un’inattesa tranquilli­tà che la porta «in pace con sé stessa e senza pensare a niente». Il simbolo di tutto è un campanello che non verrà suonato.

La verità è che El Niño, pur raccontand­o disgrazie, è un romanzo tutt’altro che disperato. Lo si legge, anzi, con un sentiil

mento di sospesa meraviglia. Il montaggio tra passato e presente ricorda il gigantesco sforzo costruttiv­o di Patria e attenua i rischi di un cammino iniziato con un evento tanto distruttiv­o. Se per quel libro — che illumina il buio di oltre trent’anni di terrorismo nel Paese Basco — il pensiero correva a La peste, in questo la nettezza stilistica e i modi di raccontare lo scontro tra morte e ragione chiamano in causa Lo straniero. Aramburu, che apprezza molto Albert Camus, ha detto in passato a «la Lettura» di essere debitore allo scrittore francese della «base morale» che lo avvicinò all’umanesimo. Una chiave di lettura possibile, questa, per capire oggi la sua empatia nei confronti di uomini e donne semplici che vivono in quelle terre dure da cui anch’egli proviene, abituate alla sofferenza, bagnate da una pioggia apparentem­ente incessante.

Si può certamente dire, in conclusion­e, che Aramburu abbia rivolto un omaggio all’amore filiale. È un tema caro a un romanziere «totale» che ha scritto anche poesie. Una di queste, riunite recentemen­te nella raccolta completa Sinfonìa corporal, intitolata Figlia, si apre così: «Conoscerai la luce, il mare variabile/ che precede l’origine ed è ulteriore al mondo/ le laboriose formiche disperse sul sentiero/ che ripetono l’affanno inutile degli uomini». Inutile aggiungere altro. Lasciamo la parola a questo libro che ci fa sapere, nel suo ultimo intervento in corsivo, di voler terminare senza «un messaggio esplicito, una lezione morale». Non siamo d’accordo. Un insegnamen­to arriva ugualmente. Riguarda il primato sublime della scrittura.

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