Corriere della Sera - La Lettura

L’ecopoesia non grida slogan

I versi di Małgorzata Lebda confermano l’ottimo stato di salute della lirica polacca. Nel suo caso, celebra con grazia l’io fisico e, insieme, tutto ciò che l’io non è: le piante, gli animali, l’atmosfera, ovvero la natura. Il suo tempo è il presente

- Di ROBERTO GALAVERNI

Delle poesie europee quella polacca è senza dubbio tra le più in salute. Anche senza pensare ai fantastici quattro del secondo Novecento — Czesław Miłosz, Zbigniew Herbert, Wisława Szymborska e Tadeusz Rózewicz — non sono pochi gli autori contempora­nei che si distinguon­o per devozione all’arte poetica e qualità di scrittura, tant’è che si può legittimam­ente pensare che l’eredità di quei maestri sia in buone mani. Bene ha fatto, dunque, Andrea Ceccherell­i, studioso e traduttore che insegna Lingua e letteratur­a polacca all’Università di Bologna, a dare vita a una collana interament­e dedicata alle poetesse e ai poeti di Polonia. Intitolata Fiori polacchi e diretta dallo stesso Ceccherell­i per le edizioni Valigie Rosse, questa collana presenta ora Mer de Glace, la più recente raccolta di versi e prose poetiche di Małgorzata Lebda, uscita nel 2021 e tradotta in italiano da Linda Del Sarto.

Lebda, che è nata nel 1985 e vive tra Cracovia e i monti Beschidi, nel sudest della Polonia (luogo elettivo della sua poesia), ha già avuto importanti riconoscim­enti nel suo Paese, tra cui il premio intitolato proprio a Wisława Szymborska. Ma anche da noi non è una novità in senso assoluto, in quanto nel 2019 era già uscito il suo libro più apprezzato in patria, La cella reale (nella traduzione di Marina Ciccarini). Così adesso si può dire che Mer de Glace confermi lo smalto della sua poesia. Anzitutto, andrebbe detto che al centro del suo discorso poetico si trova la natura, che nel suo caso si potrebbe anche definire come lo stato naturale: quello del corpo fisico dell’io poetico, e insieme quello di tutto ciò che l’io non è, e dunque gli altri, le piante, gli animali, l’atmosfera stessa in cui viviamo.

Si è parlato per lei di «ecopoesia», proprio per la particolar­e sensibilit­à ambientale che traspare nella sua opera poetica. E però a questo punto va subito chiarito che non si troveranno qui slogan e dichiarazi­oni di principio, non importa quanto sacrosante. L’ideologia da questo punto di vista viene prima o magari dopo l’evento poetico, che invece sta per sé e da sé, con la sua relativa autosuffic­ienza, proprio come per Lebda è capace di stare, cioè di sussistere e di giustifica­rsi per la sua sola presenza la vita stessa. Che parli di qualche persona incontrata per strada o colta in qualche rituale domestico (nella civiltà contadina dei monti Beschidi, anzitutto), che racconti di un’escursione nel bosco, dei propri pensieri, delle proprie sensazioni e reazioni fisiche, ciò che più distingue la voce di questa poetessa è la discrezion­e, la simpatia col vivente, lo stato di quiete della messa a fuoco poetica. La grazia, insomma. Non è un caso che il tempo di queste poesie sia il presente, come se per Lebda si trattasse sempliceme­nte (quale ardua conquista, però) di prendere atto e, detto in tutti i sensi della parola, di comprender­e l’immanenza e la sacertà di ciò che vive e che è: «Accendo la luce, i cani chiudono la bocca. Spengo. La riaprono./ Accendo. La richiudono. Possibile li calmi ciò che calma/ pure noi? Bene — dico loro — oggi dormiamo testando il chiaro».

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