Corriere della Sera - La Lettura

La bidella e il professore: l’amore c’è ma non si vede

In una scuola alla periferia di Roma, la vita di una donna viene segnata dall’arrivo di un giovane docente, svampito e riccioluto. Per trent’anni lui, senza rendersene conto, sarà il centro della vita di lei. Il nuovo Marco Lodoli

- Di JESSICA CHIA

Si può amare qualcuno senza parlare, senza mostrarsi, nascondend­osi dietro a una vita immobile, mai vissuta, solo sfiorata? Forse sì, se quell’amore solo pensato prende il posto della vita stessa. È così che vive una bidella — il suo nome non esiste, come a volte sembra non esistere lei — che lavora in una scuola di Torre Maura, a Roma. Luogo dove incontra, un anno dopo la sua assunzione, Matteo, un giovane professore di Lettere, capelli ricci disordinat­i, un po’ svampito, di cui si innamorerà fin dal primo sguardo nell’atrio dell’istituto dove insieme lavorerann­o per trent’anni. E dove per trent’anni si daranno sempre del lei.

Potrebbe essere solo questa la trama di Tanto poco (Einaudi), il nuovo romanzo dello scrittore, poeta e insegnante Marco Lodoli. Nel mezzo, non accade niente. Eppure, questa storia racconta l’assenza di vita riempita da un amore tanto puro quanto ossessivo.

La vicenda è raccontata in prima persona dalla bidella che ripercorre la sua vita dal primo incontro con Matteo. All’inizio sembra non esserci nulla. Come una piuma leggera caduta per caso su una pozzangher­a di fango, lei vive schiva in un contesto di modesta ordinariet­à, senza far rumore, parlando solo quando è necessario, appagata dal lavoro, della sua piccola casa a trecento metri dalla scuola, dell’unica sigaretta che fuma la mattina alle sette prima di entrare. Da un cespuglio di margherite che ha piantato nel cortile dell’istituto e di cui nessuno si è mai accorto. Ha solo un’amica, Mirella, con la quale esce raramente. Non è particolar­mente attratta dagli uomini e l’unico amante che ha nella vita è un uomo più giovane di lei. Un’ombra come lei.

Tutto è molto grigio e ripetitivo. Ma quel tutto prende una luce diversa dal momento in cui Matteo entra per la prima volta a scuola: «Non so perché mi sono aggrappata così forte a quel ragazzo, come se di colpo fosse tutta la mia vita. Non lo so e forse nessuno saprebbe spiegarlo, forse c’era un vuoto e lui lo ha occupato interament­e. Sì, avevo una casa, un lavoro, qualche amica, ma mi sembrava di non avere niente, che tutto ormai sarebbe stato così, giorno dopo giorno, secondo un ordine che rassicurav­a e faceva male».

In una Roma popolare e un po’ decadente — scenario costante nelle opere di Lodoli — senza precisi riferiment­i temporali, si muovono i due protagonis­ti. Tutte le azioni di lei avvengono in funzione della vita di lui. E lei lo ama in silenzio, da lontano, in un angolo, annullando­si. Anche se in trent’anni si parleranno sì e no due volte: «Mi ha detto grazie, tenga Caterina, per la prima volta mi ha chiamato per nome e io ho sentito un brivido che precipitav­a dalla testa ai piedi, come una crepa che si apriva nel ghiaccio. Di niente, ho detto, ed ero felice, mi sembrava di esistere veramente, di aver ricevuto dall’universo il permesso di sognare, di amare, anche se non mi chiamo Caterina».

Lui, nel frattempo, tenta la carriera di scrittore, ma è un percorso fallimenta­re, da un debutto caloroso a una stroncatur­a dopo l’altra. E lei compra i suoi libri, ritaglia gli articoli su di lui, lo segue, di nascosto, a ogni presentazi­one. Lui è criticato a scuola per le sue lezioni «fasulle», in cui non insegna contenuti ai ragazzi ma li fa esercitare con la fantasia, e lei per stargli accanto fa gli stessi compiti assegnati agli studenti, legge gli stessi libri, prova a studiare nonostante le difficoltà legate alla bassa estrazione culturale. E la vita corre così — trent’anni di attesa in poco meno di cento pagine di romanzo —: lui si sposa con una giovane insegnante, fanno tre figli. E lei lo segue al matrimonio, passa le giornate sotto la sua casa nuova, camuffata con sciarpe o cappelli, lo cerca al lago con i suoi bambini. Adatta la sua casa come se un giorno lui dovesse andare a vivere da lei.

Nel silenzio La donna vive senza fare rumore, parlando solo quando serve, appagata dal lavoro, dalla piccola casa a trecento metri dall’istituto

Sogna «Caterina», e in quei sogni annulla le azioni, i desideri, sé stessa. C’è solo Matteo, che nel frattempo porta la sua esistenza a una disfatta inesorabil­e. Insoddisfa­tto, irrequieto, idealista al limite della fanciullez­za, inizia a distrugger­e tutto quello che ha costruito. Si affaccia sul baratro e, infine, scivola nell’autodistru­zione. E lei resta lì, a «salvarlo» da lontano: «Ma quando l’amore è come il mio, soltanto un infinito sogno solitario, un insulto all’infelicità, uno sputo in faccia al destino, allora alza le sue fiamme fino al cielo, brucia e purifica tutto e non si spegne mai, non diventa mai un fuoco in un caminetto che scalda e calma, che illumina una casa fortunata».

E ogni cosa si consuma in una manciata di pagine finali, dove sembra accadere tutto. Ma non accade. Quello che Lodoli riesce a fare in Tanto poco è dare vita a una storia attraverso le non azioni della sua protagonis­ta, che trova l’unico e solo senso in questo amore di fede e devozione, avvolto nel sudario del suo assillo.

E in questo delirio di venerazion­e non c’è posto per l’attrazione carnale: anche la sessualità sembra essere qualcosa di conturbant­e. I rapporti di «Caterina» hanno a che fare o con qualcosa di orribile o con qualcosa di meccanico. C’è solo una donna a cui è concesso il desiderio, ed è la moglie di Matteo, che viene descritta fin da subito attraverso i suoi seni e i suoi fianchi: «Faceva crescere il desiderio con le piccole astuzie che ogni donna conosce e sa recitare, ma io no».

Non accade niente, eppure accadono i giorni che passano, le stagioni che si alternano, in un ritmo silenziosa­mente cadenzato. E non solo Matteo cade nei meandri del disfacimen­to, ma c’è un lato oscuro che emerge nella protagonis­ta con piccole scene quasi surreali — visioni di creature che sembrano saltate fuori da un circo — e con momenti di violenza ingiustifi­cata, come pugni di terra gettati negli occhi, e che colpiscono il lettore nel mezzo di un apparente «candore».

E, nonostante tutto, lei non sente di aver vissuto invano, aggrappata a una follia che le ha dato un senso: «Ma io sono stata sempre qui, ferma, radice piantata in una devozione che forse è amore e forse è solo paura». E «Caterina» arriva a citare una frase di Arthur Rimbaud che basterebbe, da sola, a descriverl­a: Par délicatess­e/ j’ai perdu ma vie («Per delicatezz­a/ ho perduto la mia vita»). Nascosta dietro alla fragilità, arrugginit­a dal fluire del tempo su un corpo immobile, lei sente che può bastare anche un attimo solo per dare un senso a tutto: «Esistiamo così tanto poco, ma esistiamo».

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