Corriere della Sera - La Lettura
Le cose raccontano ela casa parla
Architetto e già rettore della Iuav, Marino Folin propone una specie di inventario romanzesco e autobiografico di tutti gli oggetti custoditi nella sua dimora veneziana, alcuni ereditati, altri portati da viaggi in luoghi lontani, altri acquistati
Nel sestiere veneziano di San Polo c’è una casa, parte di un immobile di cinque piani risalente al XV secolo, un tempo usato come postribolo, frazionato all’inizio degli anni Venti del Novecento e oggi residenza di Marino Folin, architetto ed ex rettore della Iuav. Dominus e cerimoniere di quest’appartamento, Folin non lo ha solo acquistato e ristrutturato: lo ha trasformato nel personaggio di un romanzo. Da La città del capitale (1972) a Inventario. Le cose e la casa, architettura ha infatti significato per Folin progetto, racconto, fondazione: seguendo un’indicazione di Leon Battista Alberti, posta in incipit al libro, la casa è minima quaedam civitas (una specie di minuscola città), e deve dunque rispondere a un progetto in cui convergono principio di utilità, bellezza, progetto morale e civile, eredità del passato e sguardo al futuro.
Corredato da un ricco apparato fotografico e dalle tavole dell’unità immobiliare, Inventario è un libro singolarissimo e bizzarro, in cui ogni capitolo racconta uno degli spazi domestici (dove si lavora, dove si soggiorna, dove si cucina, dove si ama e si riposa…) attraverso le storie degli oggetti che li abitano. Raccolti nel corso di trent’anni di viaggi in giro per il mondo, troviamo mobili, quadri, statuine, vasi, lampade, maniglie, modellini, pentole e bicchieri, persino un vogatore ad acqua identico a quello utilizzato da Kevin Spacey nella serie televisiva House of Cards, acquistato per la sua «rudezza e semplicità medievale». Pensato come «inventario da lasciare ai propri figli, ai loro figli e alla loro discendenza nei secoli a venire», questo libro è però molto di più: dal progetto dannunziano del Vittoriale a La casa della vita di Mario Praz, dalla Casa di un artista di Edmond de Goncourt all’Atlante della memoria di Aby Warburg, fino a La vita delle cose di Remo Bodei, la casa non è mero contenitore, ma enciclopedia di storie, rete di relazioni tra gli oggetti, chi li ha progettati, chi li acquista e li ospita. La «tesorizzazione eclettica» diviene così il segno di una scrittura che non si limita a vedere gli oggetti, a descriverli o a collezionarli ma, attribuendo loro volume, storia, memoria, annette loro un più di vitalità.
Tra spazio domestico e spazio teatrale, la casa di Folin è un buen retiro in cui ogni elemento trova collocazione e, raccontando la propria storia, crea rimandi rispetto all’ambiente circostante: ma, anzitutto, diventa parte di un progetto di vita, tappa di un viaggio che (come quello di Marco Polo) fa di Venezia il porto elettivo e lo scrigno di un mondo intero.
Il piccolo viaggio intorno alle proprie stanze contiene decine di viaggi lungo i sentieri del mondo, dalla Cina (frequenquello
Inventario. Le cose e la casa MARSILIO Pagine 480, e 22
Marino Folin (Venezia, 1944), architetto, è stato rettore della Iuav. Tra i suoi titoli: La città del capitale (De Donato, 1972) e Tecniche e politiche del problema della casa in Europa. La Gran Bretagna (Marsilio, 1979) L’immagine
Piastre guida per la ricerca delle cose: 7 soggetti ripetuti 10 volte come esercizio didattico tatissima dall’autore) al Giappone, da Sumatra al nord Africa, dai Paesi anglosassoni al Sud America: e ogni viaggio reale ne contiene a sua volta un altro, alla scoperta degli oggetti più disparati. I coltelli Takeda, la maschera nepalese, i numerosi servizi da tè, le Monkey Lamps di Seletti, ma anche le maniglie Garda disegnate per la Olivari di Borgomanero, il modello in legno del motobattello 20A usato dall’autore quando frequentava il liceo e della DeLorean Time machine della trilogia cinematografica di Robert Zemeckis, il portagioie in argento appartenuto alla cugina Luisa Baccara durante i suoi anni di convivenza con Gabriele d’Annunzio, la caffettiera sterling-silver prodotta da Tiffany negli ultimi anni dell’Ottocento, il vaso in terracotta del III millennio a.C. ritrovato in Pakistan nel 1904 e acquistato da un antiquario di calle degli Assassini: a ogni oggetto Folin assegna un nome, ne ricostruisce la storia, ripercorre l’occasione e le tappe biografiche che lo hanno portato in suo possesso, ne descrive con scrupolo la collocazione in casa, anche in rapporto agli altri oggetti.
Tutto è narrato in terza persona, come in un asettico registro inventariale, eppure la classificazione del patrimonio consente agli oggetti di prender vita, e all’io più profondo di affiorare con i suoi ricordi. L’io viene letteralmente «inventato» dai propri oggetti, che lo chiamano, lo sollecitano, attraverso la loro presenza simbolica. La simbiosi completa tra l’io e gli elementi domestici fa sì che lo scorrere stesso del tempo proceda per singolarità e sincronicità che emergono inaspettatamente dal flusso continuo e indifferenziato. È il caso del dipinto dell’Antenato che «afferma perentoriamente di essere ciò che dice di essere» e il cui sguardo segue incessantemente il pronipote con «approvazione o disapprovazione, incoraggiamento o dissuasione»; oppure della poltroncina Kohn n° 12, prodotta a Vienna intorno al 1870 e appartenuta in una versione a dondolo dalla nonna dell’autore. Andata persa, venne sostituita da una più recente progettata da Le Corbusier, trovata in un mercatino di Campo San Maurizio, e da un’altra acquistata a Parigi. Entrambe destinate all’oblio («quando se ne andò dalla casa di Santa Maria Formosa rimasero con Donatella»), trovano il loro risarcimento simbolico nel mercatino antiquario di Rialto: «Si aggirava tra i banchi, soffermandosi di tanto in tanto a guardare. Un giorno vide la poltroncina Kohn n° 12, con poggiapiedi. Non gli parve vero e si affrettò ad acquistarla». Ma la vicenda di migrazione di questa seggiola non è ancora terminata perché, inizialmente collocata tra il divano e il tavolo di ferro dove lavora, la sedia pone interrogativi irrisolti, fino a che non viene spostata «al centro della quinta rosso fuoco. È la posizione perfetta per leggere un libro o ascoltare musica con le gambe allungate, mentre dalla finestra entra una leggera brezza».
Dalle pagine di questo inventario emerge un collezionista inconsueto, ostile tanto al preordinato quanto al fasullo, e incline a una logica combinatoria che percorre la stretta via «tra le meraviglie di una Wunderkammer e le buone cose di pessimo gusto» senza mai indulgere alla nostalgia del perduto o al desiderio per mondi solo sognati. L’edificazione della casa è dunque, inevitabilmente, costruzione di sé.