Corriere della Sera - La Lettura
Famiglia borghese in un inferno
Né facile né conciliante, esito di un’elaborazione di anni, la terza opera di Valentina Durante scava in un nodo di legami segnati da un segreto indicibile. E lo fa ricorrendo a temi e strumenti stilistici che paiono rimandare ad Alberto Moravia
Valentina Durante, con il suo terzo romanzo, L’abbandono consegna in liberia la sua opera più matura, dopo anni di paziente elaborazione. L’abbandono non è un libro facile, conciliante, non ha una scrittura che strizza all’occhio del lettore, certamente non guarda alle mode narrative mainstream, ma segue una parabola diversa, antica, quella del romanzo borghese, romanzo di interni, dove a dominare sono le piccole manie, i vezzi, le ossessioni, che nascondono un segreto più tremendo e antico, qualcosa di arcaico che da un lato deve essere taciuto e dall’altro è sempre suggerito; una pulizia morale di sguardo, una scrittura attenta ai gesti — si leggano le prime pagine in cui l’autrice indugia sulla preparazione della cena — e infine una lucida visione dell’uomo e del suo guazzabuglio di ansie, ossessioni, perdizioni e slanci che ricordano, o hanno ricordato all’estensore dell’articolo, il miglior Alberto Moravia: scrittore ingiustamente messo ai confini del nostro canone del secondo Novecento, ma che pare — non sappiamo quanto consapevolmente — il più sicuro antesignano della scrittura di Valentina Durante.
L’abbandono è la storia di Anna, un divorzio alle spalle, in crisi con il suo lavoro di copywriter, che torna a vivere con il padre malato, ex insegnante di lettere e latino, uomo duro e anaffettivo, che crede di essere stato abbandonato da piccolo durante un bombardamento, vedovo di una moglie morta di cancro, malattia nascosta a tutti sino alla morte. Padre e figlia vivono una routine paranoica, esemplificata dal gesto di togliersi e mettersi i guanti di Anna, così lungamente descritto da Durante, o dalla morbosa attenzione del padre per i morti, che non vengono riconosciuti e reclamati da nessuno.
In questo equilibrio di famiglia apparentemente normale, ma appunto crepata dalle origini, fallata sin dalle fondamenta, si aggira evocato inizialmente come un fantasma, Stefano, il fratello maggiore di Anna. Stefano, colui che è riuscito, famoso medico, professore universitario, sempre in giro per convegni e lezioni, è l’esatto opposto di Anna; tanto la vita di lei pare un fallimento, grandi aspettative spente in una vita grigia, tanto il fratello pare splendere nella sua lontananza. Con grande abilità Durante ci mostra, però, l’essenza demonica, luciferina di Stefano e la sua profonda fascinazione nei confronti di Anna, che culmina nell’episodio tremendo e bellissimo dei gattini, nel quale si può leggere in modo preciso l’amoralità di Stefano e la cieca fede di Anna nei confronti del fratello.
Con il progredire delle pagine lentamente scopriamo il nucleo oscuro di questa famiglia, il segreto che tutti conoscono e che nessuno può né dire né di
Lo spettro In una famiglia apparentemente normale, ma crepata, fallata sin dalle fondamenta, si aggira un fantasma...
menticare. Proprio come quei morti di cui nessuno reclama il nome, che Anna decide in qualche modo di raccontare per placare le ossessioni del padre (sono le pagine in corsivo nel testo), a dominare i rapporti di questa famiglia c’è un sentimento senza nome, o meglio un sentimento innominabile che è il rapporto tra Anna e Stefano. I due fratelli si amano, ma il loro non è amore fraterno, ma è sensuale e incestuoso, causa di vergogna per la famiglia, e motivo per cui Stefano, infine, viene allontanato dalla casa, perché sporco, perché sbagliato.
Questo sentimento profondo, terribile e potente si sparge nel libro e nella prosa di Durante come un sortilegio, che né Stefano né Anna vogliono vivere. Durante descrive la loro scelta come una costrizione ad amarsi non come fratelli, come clandestini di un amore adolescenziale che esplode nella scoperta del sesso. L’amore, che loro sentono, è qualcosa di primordiale, più antico e profondo anche dei vincoli di parentela, è una passione totalizzante e assoluta: «Io sono un uomo e tu una donna. Io non vedo che questo, a me non basta che questo, perché io non conosco che la legge del corpo. Abbiamo la stessa madre, tu dici. Ma io non la ricordo, perché tu forse sì? […] Abbiamo lo stesso padre, tu dici. Ma è un padre quello lì?». L’incesto e la sua inammissibilità vengono risolti, come in ogni ambiente borghese, con il silenzio, la negazione e il bando. Stefano andrà via da casa e non vi farà più ritorno, fino al giorno in cui Anna organizza un ultimo incontro in famiglia. Stefano accetta, e alla fine di questa cena la sorella può finalmente allontanarsi dal fratello e dal suo demone e dirgli addio: «Allontano le mani, allontano le braccia e poi, di nuovo, le avvicino circondandogli i fianchi e appoggiandoli la guancia sul petto. Ed è la prima volta, penso, che mi succede di abbracciare così mio fratello». L’abbandono coniuga ricerca stilistica e ambizione, tocca i nervi scoperti della nostra società, mostra e esplora una zona scomoda, ignota e spaventevole dell’animo umano e la esibisce al lettore con una cura e una misura che lasciano stupiti: «E dunque, come si fa a morire della morte che occorre a te, Anna?». La bellezza de è bellezza senza consolazione.