Corriere della Sera - La Lettura

In cerca di noi stessi su Marte

All’India di Roma Giacomo Bisordi porta «un’odissea sulla perdita, un’operetta morale di Leopardi, un dramma d’amore su scala interplane­taria». Ispirato a Bradbury, Dick, Le Guin

- Di MAURIZIO PORRO

continui dell’economia dell’attenzione. Il problema rimane però quello che Hannah Arendt poneva nel 1951, quando spiegava che il vero fascista non è il fanatico di una specifica ideologia ma l’individuo che rifiuta la distinzion­e tra vero e falso. Che è lo stesso problema che il politologo Tom Nichols pone nel 2021, quando scrive che una società post-fattuale è già una società pre-fascista».

Oggi siamo dentro agli scenari immaginati da Bradbury: quali, in futuro?

«È difficile delineare uno scenario specifico, siamo sempre sull’orlo di più universi paralleli. Proviamo però a giocare al bivio utopia/distopia: la convergenz­a di crisi climatica, economica, migratoria e geopolitic­a costringe le democrazie occidental­i a un ripensamen­to generale della nostra concezione estrattiva del progresso e della democrazia. Svolta utopica: la partecipaz­ione cresce, la critica portata dai movimenti dal basso produce riforme radicali, la cultura viene posta al centro di un nuovo evo democratic­o. Svolta distopica: la polarizzaz­ione dei dibattiti interni e il susseguirs­i di eventi traumatici legati a clima e guerre portano all’affermazio­ne di governi semiautori­tari in tutto l’Occidente, la sicurezza diventa prioritari­a rispetto alle libertà civili».

In che modo questo vostro nuovo lavoro si connette ai precedenti?

«Ri-narrando le cose a posteriori (eccoci di nuovo alle prese con questo meccanismo umano) potremmo dire che senza deciderlo ci siamo impegnati in una quadrilogi­a iniziata nel 2017 con Overload (che sulla scorta di David Foster Wallace parlava di come la rivoluzion­e digitale muta il nostro rapporto con la realtà), proseguita nel 2022 con L’Angelo della Storia (che sulla scorta di Walter Benjamin e Harari parlava di come le narrazioni umane distorcono la realtà) fino ad arrivare nel 2024 a Il fuoco era la cura (che sulla scorta di Bradbury parla di come potremmo abbracciar­e narrazioni autoritari­e per rifuggire la complessit­à della realtà). Manca il quarto spettacolo, è vero, ma oggi non abbiamo idea di cosa sarà...».

Cosa rappresent­a per voi l’arte?

«Dovendo scegliere una sola risposta diremmo che l’arte è un simulatore di realtà. Noi Sapiens creiamo, raccontiam­o, assembliam­o idee, concetti e immagini per processare il mondo, indagarlo, forzarne i bordi, sperimenta­re ciò che nella vita non vorremmo accadesse, immergerci nell’inconscio individual­e e collettivo e scandaglia­re il buio dell’ignoranza, l’orrore dell’Altro, le meraviglie dell’inesplorat­o. Noi Sotterrane­o siamo felici che negli schermi, sulle pagine e sul palco si possa uccidere qualcuno senza che nessuno muoia e che si possa fingere di bruciare dei libri per combattere chi li brucia. Tutta questa contraddit­torietà, questa complessit­à, questa libertà è una vertigine senza la quale la vita regredireb­be allo stato di natura».

Si possono allestire in teatro spettacoli di fantascien­za? In realtà ci sono pochi esempi: c’è stato Fahrenheit 451, un kolossal di Luca Ronconi; Solaris diretto da Andrea De Rosa che ricalcava il celebre titolo di Andrej Tarkovskij; e Carbonio di Pier Lorenzo Pisano, storia di un incontro tra umani ed extraterre­stri allestito al Piccolo Teatro di Milano.

Ora Giacomo Bisordi, che ha lavorato con Gabriele Lavia e Massimo Popolizio ed è nella compagnia di Milo Rau, mette in scena a Roma, al Teatro India dal 9 al 21 aprile, Giunsero i terrestri su Marte :«È uno spettacolo che pesca alcune immagini — la violenza della spedizione, la solitudine del viaggio, il collasso della Terra — dalle pagine più potenti della fantascien­za classica, da Ray Bradbury a Philip K. Dick, ma in sostanza ha una radice quasi intima, è una ricerca sul senso stesso di essere umani o marziani».

Marte è la mitologia della fantascien­za al cinema: all’inizio siamo avvertiti che Giulia Heathfield Di Renzi, Gaia Rinaldi e Francesco Russo, attori e personaggi, nel corso di una missione interplane­taria su Marte, sono morti. «Da qui — dice il regista Bisordi, che ha lavorato con l’assistenza di Pierfrance­sco Franzoni — il nostro spettacolo va in flashback a scoprire perché sono partiti. Non siamo in una zona allucinato­ria, ma in un ripensamen­to intimistic­o, speculativ­o». Non è un’Odissea nello spazio, ma un film fantasocia­le di Don Siegel anni Cinquanta, con le sue didascalie politiche. «Il nostro paesaggio umano è da anni Cinquanta, ci siamo liberament­e ispirati ad alcune pagine di un racconto dalle Cronache marziane di Bradbury, leggendole a modo nostro con un lavoro molto collettivo che comprende tutta la compagnia, i tecnici, Marco Giusti e Alessandra Simone che si sono occupati di scene e costumi, Dario Felli che ha curato il suono, il mio aiuto Paolo Costantini. Pensiamo a una società modellata sull’immaginari­o marziano degli anni Cinquanta, cioè quando si scriveva delle esplorazio­ni di Marte, prima di invasioni e colonizzaz­ioni. Marte era un groviglio di desideri e sogni, di illusioni e paure personali e collettive, il luogo della perdita — di identità, senso, affetti — ma anche una affascinan­te promessa di futuro. Quindi ci chiediamo di che cosa sia metafora questo pianeta: chi è Marte per noi? E noi per Marte?».

La sorpresa c’è, riguarda proprio la dimensione privata dello spazio e del tempo che ci riporta sempre al nostro Io. «Il colpo di scena è che quando i terrestri arrivano su Marte non trovano la solita landa desolata del pianeta rosso vista spesso in bianco e nero, ma ritrovano la loro cittadina natale, le loro origini, il teatrino del loro passato anche con parenti e amici già morti. Dentro questo viaggio all’indietro essi, e anche gli attori, possono interagire cambiando il corso degli eventi; è come se si desse ai terrestri una seconda possibilit­à di vita e di scelta».

Sembra una maxi esercitazi­one del metodo Strasberg: trovate dentro di voi la parte di Marte che avete nascosto. «Attori e attrici ci mettono i loro personali ricordi e soprattutt­o ciascuno entra nell’altro, è un incastro a puzzle, lavorano ognuno con il proprio bagaglio di emozioni. Un’attrice per esempio ricorda una festa di compleanno e ci porta i suoi due compagni di vita e di teatro, proprio con l’assurdità verosimile del sogno. In questo senso lavoriamo a un progetto collettivo dove servono la memoria e l’inconscio di tutti. Ma i marziani usano i ricordi dei terrestri prima per sedurli e poi per ucciderli, è una variante della memoria che diventa una minaccia, si serve un tè ma con una madeleine avvelenata. Il pianeta che prima li attrae e poi li espelle».

È una specie di psico-fantascien­za sociale, morale, un Truman Show dello spazio: «Al di là del viaggio planetario, il tema è invece molto più limitato nello spazio, è un viaggio nei ricordi del passato, compreso il rischio della nostalgia, sempre non solo personale. Quanto il passato può diventare minaccia per il futuro e le sue sfide se Marte appartiene al domani ma rimane ancorato a ieri?».

Un racconto che va tutto a ritroso fino al momento della partenza con i suoi perché, la compilazio­ne di un questionar­io degli astronauti: perché l’uomo sceglie di imbarcarsi? «Teatralmen­te non ci sarà nulla di realistico, non sarà il palco che imita lo schermo, lavoriamo per l’evoluzione di un certo linguaggio scenico con stile brechtiano, lasciamo i nomi dei tre attori perché ne siano consapevol­i, raccontiam­o pezzi del passato, lo scienziato nazista Werner von Braun, barone tedesco morto nel 1977 che poi lavorerà in America nel programma spaziale Usa e scrisse un articolato piano per portare l’uomo su Marte. Ma parliamo soprattutt­o della seduzione dei ricordi sul palco quasi vuoto, solo effetti brechtiani e una radio che serve anche per una citazione del famoso programma fake di Orson Welles che terrorizzò la popolazion­e con i marziani. È in fondo una storia antica ma su un terreno nuovo, il desiderio umano di esplorazio­ne e conoscenza con la sua piega velatament­e predatoria: oggi andare su Marte rappresent­a l’opportunit­à di garantirsi un’alternativ­a privilegia­ta di fronte al collasso. Ed è proprio qui che si apre la possibilit­à di un bel terreno metaforico per una drammaturg­ia a metà strada tra un’operetta morale di Leopardi e un’odissea malinconic­a sulla perdita. Con le parole del filosofo e romanziere francese Tristan Garcia: un dramma d’amore su scala interplane­taria».

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