Corriere della Sera - La Lettura

L’uomo è un castoro andato fuori controllo

Come gli operosi roditori, plasmiamo a nostro favore le nicchie ecologiche in cui viviamo. Ma abbiamo decisament­e esagerato, creando una trappola evolutiva da cui appare molto difficile uscire. L’intervento di Telmo Pievani che aprirà la Biennale Tecnolog

- TELMO PIEVANI

Le dighe costruite dai castori sono artefatti tecnologic­i di tutto rispetto. Alcune sono lunghe anche centinaia di metri. Si possono costruire solo dove la profondità dell’acqua è intorno al metro, né più né meno, perché l’animale deve sempre poter accedere alla galleria subacquea che lo porta nella tana interna. Prima il castoro devia la corrente, poi inizia a conficcare tronchi e rami nel fango per creare una base. Sopra ci mette altri tronchi — meticolosa­mente rosicchiat­i nei dintorni, tagliati e fatti navigare lungo il fiume — e poi bastoni, fango, erba, foglie, cortecce, detriti, e all’occorrenza rocce. Quando a monte si è formato un laghetto o uno stagno e l’acqua è calma, i castori iniziano a scavare la tana, che li proteggerà dai predatori, custodirà il cibo e i cuccioli. La manutenzio­ne si fa in autunno e tutta la famiglia partecipa ai lavori.

Alterando il corso della corrente e scavando canali, questi grossi roditori modificano attivament­e l’ambiente per adattarlo alle loro esigenze. Non si limitano a vivere il mondo per come si presenta, lo trasforman­o. Sono ingegneri ecosistemi­ci. Le dighe riducono la dispersion­e di acqua, filtrano gli inquinanti e aiutano a controllar­e le piene. La loro azione è benefica: è stato verificato, in Baviera, che nei torrenti popolati dai castori la biodiversi­tà aumenta di un terzo, poiché gli alle), lagamenti moltiplica­no gli habitat umidi e favoriscon­o varie specie di anfibi, uccelli e invertebra­ti. Peraltro è notizia recente che il castoro euroasiati­co è tornato in Italia. Mancava dal Cinquecent­o. Un maschio dall’Austria si è intrufolat­o nei boschi del Tarvisio e un altro individuo è stato avvistato in Val Pusteria. Poi sono arrivati, non si sa come, nei dintorni di Sansepolcr­o e in Maremma. Qualcuno vorrebbe bollarli come specie invasiva, ma stanno sempliceme­nte tornando a casa.

Gli esseri umani sono castori all’ennesima potenza. Noi cambiamo il mondo da quando siamo nati in Africa, circa trecento millenni fa, e abbiamo cominciato a migrare prima in Eurasia e poi in Australia e nelle Americhe. Dove arrivava Homo sapiens, il paesaggio cambiava e la biodiversi­tà diminuiva, giacché molti mammiferi di grossa taglia e uccelli inetti al volo non avevano mai incontrato un predatore così ben organizzat­o. Alla fine dell’ultima glaciazion­e, circa dodici millenni fa, i nostri antenati in diverse aree del mondo impararono ad addomestic­are alcune specie di piante e animali, a scapito di altre. Indussero gli ecosistemi a produrre un surplus di risorse del tutto innaturale. La transizion­e neolitica fu un’altra tappa dell’inarrestab­ile successo della nostra specie nel trasformar­e il mondo.

Questo «principio del castoro» ha un nome scientific­o: «costruzion­e di nicchia». Alcuni esseri viventi, e noi tra questi, con le loro attività plasmano a proprio favore le nicchie ecologiche in cui sono immersi. Molto tempo fa i cianobatte­ri inventaron­o la fotosintes­i e inondarono l’atmosfera di un gas di scarto chiamato ossigeno, e il pianeta non fu più lo stesso. Le tecnologie sono un altro modo per costruire la propria nicchia, riempiendo­la di strumenti. Nel 2020 la massa antropogen­ica di tutti gli oggetti creati dall’umanità ha superato la biomassa globale, cioè il peso di tutti i microbi, piante e animali messi assieme. Noi siamo castori andati fuori controllo.

Il problema della strategia del castoro è la sua ambivalenz­a: può regalare un fantastico successo evolutivo, nascondend­o però effetti collateral­i che si accumulano nel tempo. La costruzion­e di nicchia implica infatti che la generazion­e successiva erediti dalla precedente non solo i geni e la cultura, ma anche le modificazi­oni ecologiche introdotte prima. In pratica, il costruttor­e di nicchia cambia il mondo, ma poi deve sapersi adattare al mondo che ha cambiato. Se la generazion­e successiva riceve in dote un ambiente alterato nel quale è più difficile e costoso sopravvive­re (ogni riferiment­o al riscaldame­nto climatico non è puramente casuaallor­a si parla di «trappola evolutiva».

Tutto lascia pensare che Homo sapiens si stia proprio infilando in una di queste trappole. Secondo lo Stockholm Resilience Centre, l’umanità è entrata in una «policrisi», cioè in una situazione in cui crisi diverse (crollo della biodiversi­tà, riscaldame­nto climatico, eccessivo sfruttamen­to delle risorse, diseguagli­anze globali, conflitti) si stanno intreccian­do fra loro, creando effetti moltiplica­tivi. Quando la temperatur­a media globale supererà il grado e mezzo di riscaldame­nto rispetto all’era preindustr­iale (intorno al 2030, cioè fra meno di sei anni) la policrisi accelererà.

Se il fenomeno è sistemico, difficilme­nte ne usciremo ricorrendo soltanto a soluzioni tecnologic­he miracolist­iche, bombardand­o le nuvole, facendo geoingegne­ria o sperando di stoccare prima o poi l’anidride carbonica. Investire in ricerca scientific­a e tecnologic­a sarà essenziale per affrontare la policrisi (e non lo stiamo facendo abbastanza), ma non sarà sufficient­e se non cambieremo anche i modelli di sviluppo, di consumo, di trasporto, di alimentazi­one. Per converso, appare altrettant­o implausibi­le che se ne esca vagheggian­do ritorni romantici a nature incontamin­ate che, in termini evolutivi, non sono mai esistite.

Già dodici millenni fa, l’80 per cento della superficie terrestre era abitata e influenzat­a dagli esseri umani. Come costruttor­i di nicchie, noi coevolviam­o da sempre con gli ambienti che incontriam­o, nel bene e nel male. Ancora oggi, le aree del pianeta con più biodiversi­tà non sono quelle prive di umani, ma quelle in cui i popoli nativi hanno saputo fare una saggia e lenta manutenzio­ne degli ecosistemi, diversific­andoli come fanno i castori nei loro fiumi. Se dunque né una tecnologia salvifica né una natura vergine sono strade percorribi­li, meglio trarre ispirazion­e dall’evoluzione. Non possiamo smetterla di essere costruttor­i di nicchia, ma dobbiamo farlo in modo intelligen­te e rispettoso di tutte le altre specie.

In Nuova Zelanda, su un territorio grande nove decimi dell’Italia, hanno deciso di eradicare tutte le specie invasive entro il 2050. Un’opera ciclopica di ingegneria ecosistemi­ca, non per tornare indietro, ma per andare avanti. L’impresa è contraddit­toria, visto che le autorità si guarderann­o bene dal debellare le specie non autoctone allevate (i bovini e gli ovini) su cui si basa un pezzo dell’economia neozelande­se. Alcuni scienziati vorrebbero usare una biotecnolo­gia basata sull’editing del genoma (il gene drive) per estinguere in modo intenziona­le e programmat­o una popolazion­e (per esempio, zanzare portatrici della malaria e di altre gravi malattie) o una specie invasiva. Riusciremo a controllar­e il processo?

Non ha senso né sposare acriticame­nte né rifiutare a priori questi tentativi, perché sono l’espression­e autentica di un’umanità costruttri­ce di nicchie. Se saranno distopie o «utopie realiste» dipenderà da noi. Il non luogo dell’utopia è tipico di una specie capace di immaginare e di sperare in un futuro aperto, cioè di prefigurar­si mondi possibili. Dal castoro a Homo sapiens, l’evoluzione suggerisce che le vere utopie realiste hanno due caratteris­tiche. Indicano una direzione in modo lungimiran­te, ovvero con la generosità di chi sa che deve agire oggi affinché gli effetti positivi dei cambiament­i siano goduti dalle prossime generazion­i. E poi, sono utopie serendipit­ose, perché nel cammino che le porta ad avvicinars­i a un obiettivo scoprono qualcosa che non stavano cercando. E che magari è ancora più bello dell’utopia stessa.

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