Corriere della Sera - La Lettura
FATELI STUDIARE (E FATELI PAGARE MENO)
Il futuro non è più quello di una volta e l’università, tra le istituzioni più solide e longeve, non fa eccezione nella ricerca di un nuovo equilibrio di fronte alla sfida della complessità. Analizza limiti e opportunità dell’istruzione postsecondaria come laboratorio di un mondo in rapida trasformazione il panel The Future of Higher Education, finestra di dibattito sul futuro dell’educazione accademica, ospitato lo scorso 5 aprile dall’università Luiss di Roma.
A restituire la dimensione critica del presente — contraddistinto dalla «fluidità» come ha sottolineato il rettore dell’ateneo, Andrea Prencipe — i bivi che si prospettano in questa fase di passaggio: se in un contesto sempre più globalizzato si debba preservare il valore universale del sapere o se invece (non fosse altro che per ragioni di sostenibilità) si debba ripensare il paradigma in chiave sempre più specialistica (con il rischio di una deriva economicista-elitaria). Lo scenario tratteggiato dal presidente della Luiss, Luigi Gubitosi, è quello di un «futuro polarizzato in cui le università locali con la loro offerta sempre più differenziata faranno un ottimo lavoro, altre cercheranno di creare un network internazionale». La seconda ipotesi riflette il posizionamento dell’ateneo romano: «Il luogo — ribadisce Gubitosi — è importante. Settecento nostri studenti sono all’estero e ne abbiamo altrettanti provenienti da altri Paesi: il tratto comune è che sono molto qualificati e il nostro obiettivo è renderli persone migliori, capaci di discriminare nell’accezione greca del termine» (da diakríno, io separo).
Marcella Panucci, capo di gabinetto del ministero dell’Università, pur riconoscendo il gap dell’Italia — secondo i dati Istat più recenti i laureati tra i 30 e i 34 anni sono il 27% contro la media Ue del 41,6% ma i numeri sono in crescita costante — evidenzia «una produttività scientifica più alta rispetto a quella di Francia e Germania». Il punto è che il nostro sistema «è più focalizzato sulla ricerca che sull’insegnamento e lo studio», perciò si sta pensando di rafforzare gli strumenti di valutazione della didattica. Tra le caratteristiche che spiccano a confronto con il modello gestionale di altre nazioni, l’ampia accessibilità della nostra istruzione universitaria: «La media delle tasse è di duemila euro l’anno e abbiamo un’alta percentuale di esenzione, che al Sud arriva al 60%». Tema cruciale, le risorse: «La Cina sta investendo molto in higher education, oltre il 4% del Pil, nel frattempo noi abbiamo destinato 4,5 miliardi del Pnrr alla ricerca e all’innovazione per programmi di collaborazione alla didattica, attrazione di laureati nelle imprese, dottorati congiunti tra atenei e grandi aziende». Una quota significativa, il 12,5% del totale, è destinata alle
(borse di studio) e si sta puntando
Il Regno Unito è ampiamente considerato il Paese che ospita alcune tra le migliori università del mondo. Questi atenei sono il risultato di un esperimento in cui il governo è passato dal finanziamento diretto delle università e dalla definizione del numero di studenti a un sistema in cui il governo concede prestiti a studenti e non limita il numero di studenti. Il sistema si è espanso notevolmente, con pro e contro. Oltre il 90% dei laureati inglesi contrae un prestito, con un debito medio di circa 45.600 sterline (53.500 euro), che li rende i laureati più indebitati al mondo: dato l’aumento del costo della vita e l’appiattimento delle opportunità per i laureati, il prestito è fonte di preoccupazione. Insieme alle incerte prospettive di lavoro in un’economia tiepida, quasi la metà dei laureandi del Regno Unito riferisce di avere problemi di salute mentale e un quarto riferisce di avere una patologia mentale diagnosticata.
Una buona formazione universitaria è un’impresa costosa. Nella maggior parte dei Paesi Ocse il governo finanzia le università in maniera preponderante. In Inghilterra, invece, è il contrario: lo studente paga le tasse, sostenute da un prestito. Poiché il governo britannico fornisce il prestito per le tasse, esso ha fissato il tetto massimo delle tasse. Le università inglesi hanno triplicato il numero di studenti internazionali a cui possono applicare una retta di mercato per evitare l’erosione delle risorse finanziarie per la ricerca: in questo modo, il sistema è passato dall’essere prevalentemente finanziato dal governo a sistema pubblico finanziato da privati.
Si possono trarre molti insegnamenti da questo esperimento. In primo luogo, in tutto il mondo c’è una grande voglia di andare all’università e gli studenti e le famiglie sono disposti a contrarre ingenti prestiti per farlo. Tuttavia, un mercato dei prestiti agli studenti di per sé non porta a un sistema universitario differenziato ed efficace.
Nel decidere chi debba pagare l’università bisogna riflettere su chi ne trae vantaggio. Andare all’università crea benefici privati in termini di «vantaggio salariale dei laureati». Eppure crea anche benefici per la società in termini di maggiori entrate fiscali, aumento della produttività e società più stabili e sane. Inoltre, le università creano anche beni pubblici in termini di ricerca. Chiedere a uno studente di sostenere la maggior parte di questi costi potrebbe essere un passo eccessivo.