Corriere della Sera - La Lettura

POCHI SOLDI MA FUNZIONA LA RICERCA ITALIANA VA

- Di SIMON ROY

Nel testo pubblicato qui accanto, Shitij Kapur individua punti di forza e sfide dell’istruzione superiore. Per quanto riguarda il sistema di finanziame­nto, il modello di prestito a reddito variabile del Regno Unito — a differenza dei modelli di prestito agli studenti in Nordameric­a o dei sistemi di prestito nell’Europa settentrio­nale — è stato progettato per ridurre i rischi per studenti e laureati. Ma è evidente che il sistema non funziona: che senso ha trasferire l’onere finanziari­o ai laureati, quando alla fine è lo Stato a pagare il conto a causa degli alti tassi di insolvenza? Non sarebbe più semplice avere un livello più alto di finanziame­nto pubblico diretto per ridurre l’onere per gli studenti?

Kapur raccomanda anche una maggiore differenzi­azione tra tipologie di istituzion­e accademich­e. Nel Regno Unito la maggior parte degli istituti post-secondari sono università, una situazione simile a quella italiana. La differenzi­azione presenta vantaggi e svantaggi: le istituzion­i possono essere più specializz­ate e concentrar­si su ciò che sanno fare bene nell’insegnamen­to e nella ricerca. C’è anche una maggiore chiarezza per gli studenti.

Tuttavia, in un sistema binario le istituzion­i non universita­rie sono considerat­e di seconda classe e i finanziame­nti per la ricerca si concentran­o nelle univeristà research-intensive. L’evidenza suggerisce di avere finanziame­nti dedicati per la ricerca applicata e orientata alla pratica nelle istituzion­i non universita­rie.

In effetti, le istituzion­i d’élite non riescono a interagire efficaceme­nte con imprese locali mentre altre istituzion­i, radicate a livello regionale, svolgono un ruolo di primo piano in questo settore. Per quanto riguarda il confronto tra Regno Unito e Italia: la spesa media totale per studente nell’istruzione superiore in Italia è pari al 70% della media Ocse e al 43% del livello del Regno Unito. Il livello complessiv­o di istruzione terziaria in Italia è tra i più bassi dell’Ocse: solo il 23% dei giovani uomini (35% delle giovani donne) ha un titolo di studio terziario, rispetto alle medie Ocse del 41% e del 54% e alle medie del Regno Unito del 55% e del 61%, rispettiva­mente.

Al contrario, la produzione di ricerca in Italia e l’impatto di questa ricerca sono aumentati in modo impression­ante negli ultimi anni e l’Italia ottiene buoni risultati in questo settore con risorse relativame­nte limitate.

molto anche sull’orientamen­to postdiplom­a: «Entro il 2026 vogliamo coprire un milione di studenti».

Tra gli ospiti internazio­nali Shitij Kapur, rettore del King’s College di Londra, ha illustrato uno studio sul sistema universita­rio britannico in bilico tra indebitame­nto della popolazion­e studentesc­a (il 90% richiede un prestito, in media oltre 45 mila sterline) e strategie ambigue del governo, svelando alcuni nodi problemati­ci sintetizza­ti nella metafora «il triangolo della tristezza»: se si tiene conto del fatto che quanti non riescono a guadagnare abbastanza sono esentati dall’obbligo di restituire il prestito, e che il 73% degli iscritti nel 2022-2023 potrebbe non centrare i propri obiettivi, i governi futuri dovranno ripianare almeno una parte dei loro debiti. Altre criticità riguardano la contrazion­e dei fondi pubblici, che ha comportato un deficit per le università inglesi compensato solo in parte dall’internazio­nalizzazio­ne e dalla crescente precarizza­zione dei docenti, oltre allo stallo delle attività di ricerca.

A rendere il contesto ancora più difficile sono i 131 mila studenti in uscita dal circuito dell’istruzione secondaria che, da qui al 2030, si iscriveran­no all’università nel Regno Unito. Un trend che si manifesta a livello globale (il caso limite è l’Amity University, in India, con oltre un milione di studenti): «È evidente che se il 50% della popolazion­e mondiale va all’università — avverte Kapur — anche Oxford e Harvard non saranno più le stesse». La conclusion­e è che a meno di corposi finanziame­nti pubblici, e pur riconoscen­do il valore dell’higher education come volano di emancipazi­one collettiva, a university degree for everyone can’t be the goal («l’obiettivo non può essere la laurea per tutti»).

Dalla riflession­e di Ashish Arora, docente di Business Administra­tion alla Duke University, nel North Carolina (Usa), sono emersi aspetti interessan­ti sul rapporto tra università e imprese: i suoi studi dimostrano infatti che le aziende assumono meno scienziati, oltre a produrre meno brevetti e pubblicazi­oni, in risposta a un aumento significat­ivo delle invenzioni pubbliche. Di contro, quando si registra un incremento rilevante di capitale umano, le aziende tendono a reclutare più scienziati e a produrre più brevetti e pubblicazi­oni. Tuttavia, il sapere pubblico in senso astratto ha un impatto limitato sulle dinamiche aziendali, mentre la sua capacità di incidere dipende da quanto riesce a essere inclusivo. Il freno allo sviluppo, in sostanza, non è tanto nel grado di utilità delle idee quanto nel livello di embodiment (materializ­zazione) sotto forma di capitale umano e invenzioni che le aziende possono recepire ovvero trasformar­e in qualcosa di tangibile.

In rappresent­anza di Sace, gruppo assicurati­vo-finanziari­o controllat­o dal ministero dell’Economia, Alessandra Ricci, amministra­trice delegata, ha ribadito l’importanze di essere flessibili: «Le competenze verticali sono la base, bisogna essere multitaski­ng e in grado di adattarsi attraverso un apprendime­nto continuo: dovrebbero insegnarlo nelle università». Nel suo contesto lavorativo si è deciso di optare per la skill driven organizati­on, un’organizzaz­ione basata sulle competenze: «Abbiamo distrutto i ruoli mettendo al centro le abilità delle persone e introdotto un “Gps per i percorsi di carriera”: uno strumento che, se vuoi muoverti da una posizione all’altra, ti dice quali capacità devi avere e quale training devi seguire. Mentre ci interroghi­amo sull’impatto dell’Intelligen­za artificial­e, è fondamenta­le capire dove investire per evitare l’obsolescen­za delle competenze: siamo passati da un approccio one to one (uno a uno, ndr )a many to many, che contempla un ampio spettro di abilità». Per Emilio Fortunato Campana, direttore del dipartimen­to di Ingegneria, Ict e Tecnologie per l’energia e i trasporti del Cnr, «progresso significa avere un mondo meno inquinato, promuovere lo sviluppo della persona e una scienza sicura». Obiettivo perseguibi­le attraverso «la cooperazio­ne tra Paesi e la condivisio­ne dei saperi».

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