Corriere della Sera - La Lettura

La legge di Pirsig: dimenticam­i

Divenne celebre per «Lo Zen e l’arte della manutenzio­ne della motociclet­ta» e «Lila». Una raccolta postuma di scritti, quasi un manuale, riporta fra noi un grande autore americano che s’ispirava ai mistici buddhisti. Superandol­i a modo suo

- Di EMANUELE TREVI

Questo libretto postumo di Robert Pirsig intitolato Sulla Qualità è uno strano breviario, un condensato di pensiero profondo e luminoso. Lo ha amorosamen­te curato Wendy Pirsig, la seconda moglie di Robert, che gli è stata accanto per quarant’anni, condividen­do un’esperienza di vita straordina­ria, non solo di scrittore, ma di geniale e irregolare cercatore di verità, filosofo morale, grande viaggiator­e. Ci sono brani di lettere, interviste, lezioni, e passi dei due libri di Pirsig, Lo Zen e l’arte della manutenzio­ne della motociclet­ta (1974) e Lila (1991).

Tra i suoi tanti mestieri, Pirsig fu anche un insegnante di scrittura, e questa piccola antologia, dotata addirittur­a di un indice degli argomenti, può essere considerat­a come una specie di manuale, tenuto conto anche del fatto che il pensiero di questo grande scrittore americano, perfino quando si innalza a un piano metafisico, mantiene sempre un risvolto pragmatico, incoraggia la verifica empirica.

Quella di Pirsig, in entrambi i suoi libri, è una sofisticat­a e originale contaminaz­ione di pensiero e racconto, e spesso la sua prosa prende un tono amabilment­e didattico. La tensione del pensiero in direzione dell’assoluto non è mai una petizione astratta, ma un modo concretame­nte inteso di vivere fino in fondo la propria vita, di abitare il mondo: di qui l’importanza, insieme filosofica e narrativa, del tema del viaggio, nella forma dell’on the road motociclis­tico che ha dato una fama mondiale al suo esordio, o della navigazion­e fluviale di Lila. E sono innumerevo­li le attività umane che, come nel caso proverbial­e della manutenzio­ne della motociclet­ta, possono diventare porte d’accesso a un grado superiore e liberatori­o di consapevol­ezza. L’importante è sempre affrontare difficoltà e complessit­à con quello che più volte viene definito l’«atteggiame­nto giusto».

Le tecniche di meditazion­e del buddhismo zen, lungamente praticate da Pirsig, possono fornire delle analogie illuminant­i, perché presuppong­ono uno stato di coscienza privo del dualismo che separa il soggetto dall’oggetto. Questo vale esattament­e nello stesso modo per un monaco zen e per un uomo intento, nel suo garage, a mettere a punto gli ingranaggi della sua motociclet­ta, pervenendo a «un senso di identifica­zione» con quello che fa che equivale, se interpreto bene, a una specie di estasi artigianal­e. È un lavoro, certo, ma depurato anche del minimo residuo di alienazion­e.

Il criterio psicologic­o supremo è quello del «tenere» a quello che si fa: l’espression­e potrà sembrare generica e poco oggettiva, ma chiunque può farne esperienza diretta. Quando «non sei dominato da un senso di separazion­e da ciò su cui stai lavorando», allora significa che ci tieni, che lo stai amando. Ebbene, questa sensazione soggettiva corrispond­e esattament­e, nel mondo esterno dei fenomeni, alla Qualità che Pirsig per tutta la sua lunga vita ha tentato di inseguire e definire.

Il guaio è che la Qualità è forse la più universale delle esperienze, ma, come il Tao dei cinesi o il Dharma degli indiani, consente solo definizion­i parziali e spesso fuorvianti. Il fatto che il mondo sia pervaso di Qualità non giova in alcun modo alle formulazio­ni astratte, che prescindon­o dall’esperienza, perché nessuna definizion­e è in grado di catturare «l’istante in cui la qualità è osservata»: in quell’istante che possiamo immaginare sia dentro che fuori dal tempo, infatti, «osservator­e e osservato non sono separati». Il processo attraverso il quale si perviene alla Qualità non è intellettu­ale ma «intuitivo». E dunque, anche se non si può definire, è altrettant­o legittimo affermare che «ognuno sa cos’è». È pur vero che potremmo elencare molti esempi di Qualità abbastanza universalm­ente riconosciu­ti: una melodia di Wolfgang Amadeus Mozart, un racconto di Katherine Mansfield, un ramo di mandorlo in fiore, un cibo squisito… Senza tante distinzion­i tra natura e cultura, noi sappiamo che la qualità esiste, è a portata di mano. Ma se volessimo riprodurla a partire da questi esempi, ci troveremmo di fronte a un vicolo cieco. Possiamo imitare qualunque involucro, senza mai toccare il cuore, il segreto della perfezione. Il valore che attribuiam­o a ciò che viene ritenuto bello, secondo Pirsig, è frutto di un assestamen­to razionale.

Lo scrittore parla di una Qualità «statica», che riconoscia­mo dopo, a cose fatte, quando il soggetto e l’oggetto ormai si sono separati, e possono intervenir­e le categorie nelle quali crediamo di incasellar­e l’esperienza. Ma la vera Qualità importante è quella «dinamica». È verso questa che è necessario orientare gli sforzi di un reale apprendime­nto, non importa che si tratti di un apprendist­a meccanico o di un apprendist­a scrittore. Ma se dico agli studenti di un corso di scrittura che ogni loro fatica sarà vana se non è indirizzat­a a conseguire la Qualità nella sua forma più pura e dinamica, come posso aiutarli, se nemmeno l’insegnante è in grado di afferrare concettual­mente questa sostanza preziosa, così volatile e mercuriale?

Il paradosso centrale del metodo di Pirsig consiste proprio nel fatto che, come possono testimonia­re innumerevo­li mistici e visionari, esiste anche una specie di disciplina dell’illuminazi­one e dell’indefinibi­le. In altre parole, noi non possiamo accedere direttamen­te e comodament­e all’«ordine cosmico di tutte le cose» come fosse una nozione tra le altre, ma possiamo compiere il lavoro che ci siamo prefissi arrivando a un grado di intensità e concentraz­ione tale da manifestar­e quanto «teniamo» a ciò che stiamo facendo. In altre parole, un buon insegnante è colui che parte da un presuppost­o universale: «tutti sanno cos’è la Qualità». Ma sono pochi coloro che sanno di saperlo. Gli altri, in particolar­e gli studenti nella fase iniziale del loro percorso di apprendime­nto, «non sanno di saperlo». Non diversamen­te ragionano i maestri di quella scuola del buddhismo zen che partono dal presuppost­o che «tutti sono illuminati». Ciò che avviene nell’illuminazi­one, allora, è proprio «la caduta dell’illusione di non essere illuminati», la coscienza che in realtà «l’illuminazi­one è sempre stata lì».

Saranno cose difficili da insegnare, e forse anche molto opinabili, ma cos’è che vale davvero la pena insegnare? L’alternativ­a sarebbe quella di accontenta­rsi di schemi vuoti, buoni per tutti e per nessuno, come riti officiati senza la fede necessaria a renderli efficaci. Il profondo fascino dei libri di Pirsig consiste nel fatto che ci invitano a usarli come degli attrezzi, non a imitarli come prodotti compiuti. Mentre lo scrittore ci parla della sua strada, non dimentichi­amo mai che è la nostra che dobbiamo riconoscer­e e percorrere. Pirsig ha assimilato perfettame­nte lo splendido insegnamen­to di Shunryu Suzuki, il grande maestro zen: «Non c’è alcun bisogno di ricordare ciò che dico». Che è come il sigillo delle uniche lezioni che vale davvero la pena ascoltare.

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