Corriere della Sera - La Lettura
La legge di Pirsig: dimenticami
Divenne celebre per «Lo Zen e l’arte della manutenzione della motocicletta» e «Lila». Una raccolta postuma di scritti, quasi un manuale, riporta fra noi un grande autore americano che s’ispirava ai mistici buddhisti. Superandoli a modo suo
Questo libretto postumo di Robert Pirsig intitolato Sulla Qualità è uno strano breviario, un condensato di pensiero profondo e luminoso. Lo ha amorosamente curato Wendy Pirsig, la seconda moglie di Robert, che gli è stata accanto per quarant’anni, condividendo un’esperienza di vita straordinaria, non solo di scrittore, ma di geniale e irregolare cercatore di verità, filosofo morale, grande viaggiatore. Ci sono brani di lettere, interviste, lezioni, e passi dei due libri di Pirsig, Lo Zen e l’arte della manutenzione della motocicletta (1974) e Lila (1991).
Tra i suoi tanti mestieri, Pirsig fu anche un insegnante di scrittura, e questa piccola antologia, dotata addirittura di un indice degli argomenti, può essere considerata come una specie di manuale, tenuto conto anche del fatto che il pensiero di questo grande scrittore americano, perfino quando si innalza a un piano metafisico, mantiene sempre un risvolto pragmatico, incoraggia la verifica empirica.
Quella di Pirsig, in entrambi i suoi libri, è una sofisticata e originale contaminazione di pensiero e racconto, e spesso la sua prosa prende un tono amabilmente didattico. La tensione del pensiero in direzione dell’assoluto non è mai una petizione astratta, ma un modo concretamente inteso di vivere fino in fondo la propria vita, di abitare il mondo: di qui l’importanza, insieme filosofica e narrativa, del tema del viaggio, nella forma dell’on the road motociclistico che ha dato una fama mondiale al suo esordio, o della navigazione fluviale di Lila. E sono innumerevoli le attività umane che, come nel caso proverbiale della manutenzione della motocicletta, possono diventare porte d’accesso a un grado superiore e liberatorio di consapevolezza. L’importante è sempre affrontare difficoltà e complessità con quello che più volte viene definito l’«atteggiamento giusto».
Le tecniche di meditazione del buddhismo zen, lungamente praticate da Pirsig, possono fornire delle analogie illuminanti, perché presuppongono uno stato di coscienza privo del dualismo che separa il soggetto dall’oggetto. Questo vale esattamente nello stesso modo per un monaco zen e per un uomo intento, nel suo garage, a mettere a punto gli ingranaggi della sua motocicletta, pervenendo a «un senso di identificazione» con quello che fa che equivale, se interpreto bene, a una specie di estasi artigianale. È un lavoro, certo, ma depurato anche del minimo residuo di alienazione.
Il criterio psicologico supremo è quello del «tenere» a quello che si fa: l’espressione potrà sembrare generica e poco oggettiva, ma chiunque può farne esperienza diretta. Quando «non sei dominato da un senso di separazione da ciò su cui stai lavorando», allora significa che ci tieni, che lo stai amando. Ebbene, questa sensazione soggettiva corrisponde esattamente, nel mondo esterno dei fenomeni, alla Qualità che Pirsig per tutta la sua lunga vita ha tentato di inseguire e definire.
Il guaio è che la Qualità è forse la più universale delle esperienze, ma, come il Tao dei cinesi o il Dharma degli indiani, consente solo definizioni parziali e spesso fuorvianti. Il fatto che il mondo sia pervaso di Qualità non giova in alcun modo alle formulazioni astratte, che prescindono dall’esperienza, perché nessuna definizione è in grado di catturare «l’istante in cui la qualità è osservata»: in quell’istante che possiamo immaginare sia dentro che fuori dal tempo, infatti, «osservatore e osservato non sono separati». Il processo attraverso il quale si perviene alla Qualità non è intellettuale ma «intuitivo». E dunque, anche se non si può definire, è altrettanto legittimo affermare che «ognuno sa cos’è». È pur vero che potremmo elencare molti esempi di Qualità abbastanza universalmente riconosciuti: una melodia di Wolfgang Amadeus Mozart, un racconto di Katherine Mansfield, un ramo di mandorlo in fiore, un cibo squisito… Senza tante distinzioni tra natura e cultura, noi sappiamo che la qualità esiste, è a portata di mano. Ma se volessimo riprodurla a partire da questi esempi, ci troveremmo di fronte a un vicolo cieco. Possiamo imitare qualunque involucro, senza mai toccare il cuore, il segreto della perfezione. Il valore che attribuiamo a ciò che viene ritenuto bello, secondo Pirsig, è frutto di un assestamento razionale.
Lo scrittore parla di una Qualità «statica», che riconosciamo dopo, a cose fatte, quando il soggetto e l’oggetto ormai si sono separati, e possono intervenire le categorie nelle quali crediamo di incasellare l’esperienza. Ma la vera Qualità importante è quella «dinamica». È verso questa che è necessario orientare gli sforzi di un reale apprendimento, non importa che si tratti di un apprendista meccanico o di un apprendista scrittore. Ma se dico agli studenti di un corso di scrittura che ogni loro fatica sarà vana se non è indirizzata a conseguire la Qualità nella sua forma più pura e dinamica, come posso aiutarli, se nemmeno l’insegnante è in grado di afferrare concettualmente questa sostanza preziosa, così volatile e mercuriale?
Il paradosso centrale del metodo di Pirsig consiste proprio nel fatto che, come possono testimoniare innumerevoli mistici e visionari, esiste anche una specie di disciplina dell’illuminazione e dell’indefinibile. In altre parole, noi non possiamo accedere direttamente e comodamente all’«ordine cosmico di tutte le cose» come fosse una nozione tra le altre, ma possiamo compiere il lavoro che ci siamo prefissi arrivando a un grado di intensità e concentrazione tale da manifestare quanto «teniamo» a ciò che stiamo facendo. In altre parole, un buon insegnante è colui che parte da un presupposto universale: «tutti sanno cos’è la Qualità». Ma sono pochi coloro che sanno di saperlo. Gli altri, in particolare gli studenti nella fase iniziale del loro percorso di apprendimento, «non sanno di saperlo». Non diversamente ragionano i maestri di quella scuola del buddhismo zen che partono dal presupposto che «tutti sono illuminati». Ciò che avviene nell’illuminazione, allora, è proprio «la caduta dell’illusione di non essere illuminati», la coscienza che in realtà «l’illuminazione è sempre stata lì».
Saranno cose difficili da insegnare, e forse anche molto opinabili, ma cos’è che vale davvero la pena insegnare? L’alternativa sarebbe quella di accontentarsi di schemi vuoti, buoni per tutti e per nessuno, come riti officiati senza la fede necessaria a renderli efficaci. Il profondo fascino dei libri di Pirsig consiste nel fatto che ci invitano a usarli come degli attrezzi, non a imitarli come prodotti compiuti. Mentre lo scrittore ci parla della sua strada, non dimentichiamo mai che è la nostra che dobbiamo riconoscere e percorrere. Pirsig ha assimilato perfettamente lo splendido insegnamento di Shunryu Suzuki, il grande maestro zen: «Non c’è alcun bisogno di ricordare ciò che dico». Che è come il sigillo delle uniche lezioni che vale davvero la pena ascoltare.