Corriere della Sera - La Lettura
La verità, vi prego, sull’Africa spogliata
In un mercatino del Massachusetts, un protagonista che assomiglia allo scrittore Teju Cole trova un antico copricapo proveniente dall’attuale Nigeria. Da qui un romanzo-non-romanzo sull’«arroganza distruttiva della cultura occidentale»
Nel febbraio 1897 un’unità dell’esercito britannico circondò Benin City (oggi in Nigeria) dal mare e dalle foreste dell’interno. Poco prima, i capi tribù del Benin avevano rifiutato un trattato imposto dalla Royal Niger Company. L’Impero decise di dare loro una lezione. Mandò 1.400 soldati armati di cannoni da montagna, fucili a otturatore scorrevole e mitragliatrici. Fu un massacro.
Dopo la carneficina iniziò il saccheggio che Teju Cole, nel suo nuovo, ambiziosissimo romanzo-non-romanzo Tremore, splendidamente tradotto da Gioia Guerzoni, definisce «un tentativo di cancellazione culturale». Non si conosce il numero dei morti di quella spedizione punitiva, ma, significativamente, solo quello dei proiettili sparati: 4 milioni. Pile di cadaveri erano ovunque. I capi tribù furono individuati e poi impiccati al mercato. Edifici furono dati alle fiamme, luoghi sacri profanati. Intanto, con metodo, si spogliò la città delle sue opere di significato rituale o artistico: secoli di manufatti in avorio e di sculture in ottone o in altre leghe di rame. Teste di re e di antenati furono prelevate dal Benin e sparpagliate per il mondo — si disse, con un tocco di sublime cinismo, per pagare i costi dell’invasione. Quelle opere d’arte, leggiamo in Tremore, diventarono una componente fondamentale delle collezioni etnografiche dei musei di Londra, Oxford, Cambridge, Berlino, Vienna, Filadelfia, New York, Edimburgo, Dublino, Vancouver, Basilea, Washington, Glasgow, Cleveland, Liverpool e Boston.
Ecco un esempio del metodo di lavoro di Teju Cole, scrittore dall’eccezionale agilità intellettuale nato 48 anni fa in Michigan da genitori nigeriani, cresciuto a Lagos ed educato in Europa. Cole — romanziere, saggista, fotografo e docente a
Harvard di scrittura creativa — parte dall’osservazione di un oggetto e poi allarga il campo. Nelle prime pagine di Tremore l’oggetto è un ci wara, copricapo a forma d’antilope dalle corna lunghissime trovato una domenica in un mercatino in Massachusetts. La sua provenienza e il viaggio compiuto per arrivare dove Tunde, il protagonista del romanzo, l’ha trovato, diventano punto di partenza di una riflessione ad ampio raggio sull’«arroganza distruttiva della cultura occidentale».
Anche la letteratura è, per Teju Cole, una cornice da smontare eliminando puntelli come trama, definizione psicologica dei personaggi e rivelazioni, per spingere lo sguardo oltre. In Tremore, questo intervento sperimentale, innestato sull’autofiction di cui è Cole portabandiera fin dal suo secondo romanzo, Open City (2011), mira a riflettere su grandi temi: come viviamo, pensiamo ascoltiamo, osserviamo, ma anche, più specificamente, come affrontiamo problemi morali quali la restituzione delle opere d’arte, o l’uso dell’Intelligenza artificiale. E, soprattutto, come ci poniamo di fronte a un dilemma universale: esiste un modo di rappresentare il mondo senza cannibalizzare le vite degli altri?
A Tunde, il protagonista di Tremore, Cole attribuisce molte delle proprie caratteristiche: l’età; l’incarico in una prestigiosa università americana; l’adolescenza in Nigeria. Nella prima parte del libro, quella visita di Tunde al mercatino dell’antiquariato in una domenica di svago diventa dunque lo spunto per parlare di decolonizzazione. Più tardi, la sua partecipazione alla Biennale di Fotografia di Bamako è l’occasione per una divagazione sulla musica, da Bach al pop del Mali. Più tardi ancora, un quadro fiammingo del Sedicesimo secolo, Paesaggio con città in fiamme di Herri met de Bles, servirà a squarciare il velo sui peggiori istinti alla base della tratta delle opere d’arte.
Cole, la cui prosa è fredda ma il cui sguardo sa essere occasionalmente dolce (l’allontanamento e riavvicinamento di Tunde alla moglie; il suo bisogno di rivolgersi a un amico morto tre anni prima; il ricordo di una relazione omosessuale sofferta), è maestro nell’usare l’aneddoto per attirare il lettore là dove l’esperienza della lettura è più piacevole, per poi condurlo su un terreno irto di spine concettuali. Come quando Tunde, in una conferenza al Museum of Fine Arts di Boston, si lancia in un’analisi del celebre dipinto di J.M.W. Turner La nave negriera. Come ci si pone davanti a un’opera che nel 1840 ricostruiva un fatto di 60 anni prima, quando l’inetto capitano Luke Collingwood della nave negriera Zong, navigando dall’Africa occidentale verso la Giamaica perse la rotta e allungò il viaggio di 12 settimane, durante le quali decine delle centinaia di schiavi a bordo morirono di sete e malattia, e altre decine si suicidarono? Fu allora che il capitano gettò in mare 150 persone ancora vive, per incassare il premio dell’assicurazione e non rischiare di presentarsi in porto con «merce danneggiata». John Ruskin scrisse che La nave negriera era in assoluto l’opera che avrebbe scelto per consegnare Turner all’immortalità. Mark Twain da iconoclasta la descrisse invece come «un gatto che ha una crisi epilettica in un piatto di pomodori». Comunque la si metta, entrambi posarono sul dipinto di Turner uno sguardo guercio: bianco occidentale, e sostanzialmente indifferente a ciò che Cole chiama, con un’immagine fulminante, «quella situazione di morte in vita nota come “schiavitù”».
Nella seconda parte del romanzo, Tunde tornerà a Lagos dopo molti anni di assenza, offrendo all’autore il pretesto per inserire nel suo testo 24 brevi monologhi: un’ex preside di scuola punita per aver resistito alle ingerenze di un genitore potente; un riccone che ogni anno festeggia il compleanno con le prove generali del proprio funerale; il presentatore di un programma radiofonico notturno che offre uno «spazio di tenerezza» a una città che ne ha poca. In breve: quei personaggi traboccanti di vita che Tunde taglia fuori dalle inquadrature della sua macchina fotografica, la cui essenza tuttavia continua a vibrare nelle fotografie astratte dell’artista. La conclusione — omaggio a Le città invisibili di Italo Calvino — è che Lagos «è una città in cui si fa l’amore con la gioia fremente delle prime volte, la solennità dei becchini, la disinvoltura dei professionisti, il vigore dei pervertiti e l’instancabile ardore degli immortali, in cui ogni movimento è una promessa di infiniti altri». Di fronte a questo paradiso sibaritico il viaggiatore potrebbe voler restare per sempre, scrive Cole. Ma ben presto la stanchezza si insinua. E allora «affiora il sospetto che il piacere non sia sempre piacevole, che ci possa essere qualcosa di marcio sotto quella vitalità e che l’unica cosa da fare con questa consapevolezza sia proseguire il viaggio».