Corriere della Sera - La Lettura

Io sono diviso in due come l’Ungheria

Narra un villaggio simile a quello in cui vive ma il finale è una catastrofe: «Una metafora di tutto». Orbán? «Colpa anche dell’Europa che non è riuscita, in un Paese devastato a più ondate, a ricostitui­re la borghesia. Ha vinto il capitalism­o degli oliga

- Dalla nostra corrispond­ente a Berlino MARA GERGOLET

Il mondo in cui Péter Nádas si è chiuso è il villaggio. L’ha fatto consapevol­mente, in questo romanzo Storie dell’orrore, uscito in patria due anni fa, ma «nato — dice — da 80 anni di esperienza». E l’ha fatto di persona molto tempo prima, a 26 anni, quando lasciò la Budapest della repression­e per trasferirs­i in campagna, a Kisoroszi. Ma era troppo vicino alla capitale, con le ville della nomenklatu­ra comunista, erano troppo facili le visite e i ritorni in città. E allora si è spinto fino a Gombosszeg, terra di contadini e poco altro, dove è rimasto per il resto della sua vita. Ci risponde da lì, da una stanza elegante con qualche mobile Bauhaus e un Mac davanti alle vetrate orizzontal­i che danno sull’orto. Sta per partire per un viaggio che si scoprirà essere Berlino: ma ormai eravamo già d’accordo di parlarci a distanza.

Péter Nádas, nato nel 1942, arriva dal Paese di Imre Kertész e di Ágota Kristóf. Ma è soprattutt­o uno degli ultimi grandi scrittori mitteleuro­pei, se per Mitteleuro­pa si intende non solo il triangolo tra Praga, Trieste e la foce del Danubio, ma anche un sentimento — e uno scrivere colto che non smette di interrogar­si sulla storia, per quanto spietata sia stata dalle sue parti.

Il «villaggio dell’orrore» è dipinto come una miniatura fiamminga, meglio ancora, come un inferno di Hieronymus Bosch, dove innumerevo­li figure sono affacendat­e ciascuna nel proprio travaglio. «Ciò che mi interessa del villaggio — racconta — sono gli strati. E le possibilit­à del linguaggio di muoversi tra di loro. Ci vivono i contadini, ma anche i nobili decaduti, i declassé, e tutti gli stadi intermedi. Il linguaggio passa da uno all’altro e deve ricrearli». Ci sono quindi le parole crude, grevi dei campi. «Mi interessav­a vedere quanto le bestemmie, le oscenità possano spremere il briciolo di bene che resta in noi», dice informando­si se nel testo italiano ci siano le oscenità. Alla risposta affermativ­a sorride: «Allora è stato tradotto bene».

Eppure, per altri versi, nel libro non c’è nulla di autobiogra­fico. È tutto frutto d’osservazio­ne. Nádas era arrivato a Kisoroszi lasciando il lavoro da giornalist­a e troncando ogni rapporto con Budapest: «Dopo aver visto come ogni libertà veniva sistematic­amente schiacciat­a, avevo deciso che con quel regime non volevo avere niente a che fare». Si è ritrovato molto povero, «non tanto da soffrire la fame, ma ero al limite». Le donne del villaggio a quel ragazzo sorridente(«ho capito che nessuno in campagna sorride, lo fa solo la gente di città»), accampando mille scuse, lasciavano dei piatti pronti davanti alla porta di casa. Lui scriveva. E come loro per sopravvive­re raccogliev­a patate, mirtilli o andava in cerca di funghi.

Le ultime sessanta pagine di Storie dell’orrore sono maestose. Riuniscono i destini di Roza, gran lavoratric­e e testa lenta, e Térez, l’aristocrat­ica decaduta che immagina la vita che non ha avuto nei destini fantastici dei padroni che ha servito; la prostituta Törpike e suo figlio Imre l’imbecille, Misike sulla sedia a rotelle, il prete cattolico e quello protestant­e, macellai, pescatori; e Piroska, la studentess­a venuta dalla città che attrae ed è attratta dalle gente del villaggio. Si osservano, sospettano dell’altro, si invidiano, esistono solo come reazione uno all’altro. In un controllo minuzioso di tempi, personaggi e registri che Nádas dirige come una sinfonia, il finale — scatenato da Piroska — non può che essere una catastrofe. C’erano segnali e premonizio­ni fin dalle prime pagine. «Si può leggere — aggiunge — come una metafora: la fine di tutto, del villaggio, dell’Europa, del pianeta». Un mondo crudo, spietato, senza perdono o accondisce­ndenza: perché? «È attraverso la durezza — risponde — che le persone si incontrano. Come Roza e Térez: è attraverso la schiettezz­a, a volte crudele, che si crea un legame, forse anche un affetto. Altrimenti non ci sarebbe niente».

Siccome è lui a parlare di metafore e di Europa, non si può non chiedergli dell’Ungheria attuale di Viktor Orbán. Come il lungo secolo magiaro che ha avuto il fascismo dell’ammiraglio Miklós Horthy, il regime comunista di János Kádár, è finito nell’autoritari­smo illiberale di oggi. Perché a Budapest il 1989 ha portato a questo? «Ciò che è successo — risponde — è solo in parte ascrivibil­e all’Ungheria. La colpa va divisa con l’Europa: nel mondo globalizza­to, con flussi di denaro così possenti, l’Unione ha sbagliato tanto. Non si è riusciti, in un Paese devastato a più ondate, a ricostitui­re la borghesia nazionale. E questo ha lasciato campo libero al capitalism­o degli oligarchi». È molto critico con Angela Merkel, «che ha lasciato un caos dietro di sé». Quanto a Vladimir Putin, lo ritiene un nonsoggett­o. «Come scrittore, non mi interesser­ebbe descriverl­o. È il prodotto dei servizi segreti che in Russia dai tempi zaristi sono sempre stati vicini alla criminalit­à. Questo Merkel avrebbe dovuto saperlo. Putin ha venduto anche il suo popolo insieme con il petrolio. A un certo punto ha tentato le riforme, senza essere all’altezza o in grado di raddrizzar­e le cose. Non è uno statista. Non è un uomo».

Se non avesse scelto la scrittura, Péter Nádas avrebbe potuto continuare la scuola della grande fotografia ungherese. L’anno scorso a Francofort­e gli è stata dedicata una mostra personale. Cosa ha rappresent­ato per lui quest’arte parallela? «La fotografia è diretta. Credo che guardare sia una forma d’intelligen­za, per esempio lo è nella scienza. E credo che i maggiori fotografi ungheresi, non Robert Capa, molto istintivo, ma André Kertész o Brassaï avessero questa particolar­e forma d’intelligen­za. E mi attira la composizio­ne».

Viene da chiedere perché voglia chiudere la sua opera con una catastrofe. «Ma non è il mio ultimo libro — si rianima e protesta — infatti ne sto scrivendo uno su tre amici. Non è fiction, è tratto dalla vita vera. La cosa più difficile è evitare il sentimenta­lismo. È così personale che probabilme­nte resterà un manoscritt­o. Parla dell’amicizia».

Altri scrittori alla sua età hanno smesso, Philip Roth e V. S. Naipaul annunciaro­no di aver esaurito le energie. Lui non ne vede il motivo, anche se dopo lo sforzo della scrittura «il tempo per rigenerars­i si allunga e questo rende tutto faticoso». Della morte dice di non aver paura. «Forse perché una volta mi hanno già salvato da un attacco per miracolo, ero clinicamen­te morto ma mi hanno rianimato. Io vorrei morire, il più presto possibile. Ma il corpo si ribella, lotta con tutte le sue forze per rimanere in vita il più a lungo possibile. Come l’Ungheria, come l’Europa, anch’io sono scisso in due: e in questa scissione c’è la storia della mia vita».

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L’autore Péter Nádas (Budapest, 1942; qui sopra), giornalist­a e fotografo, dal 1969 si è dedicato alla narrativa: tra i titoli, Fine di un romanzo familiare (Dalai, 2009; Baldini + Castoldi, 2014) e Storie parallele, edito da Bompiani in tre volumi (2019; 2021; 2023)
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PÉTER NÁDAS Storie dell’orrore Traduzione di Laura Sgarioto LA NAVE DI TESEO Pagine 522, e 28 L’autore Péter Nádas (Budapest, 1942; qui sopra), giornalist­a e fotografo, dal 1969 si è dedicato alla narrativa: tra i titoli, Fine di un romanzo familiare (Dalai, 2009; Baldini + Castoldi, 2014) e Storie parallele, edito da Bompiani in tre volumi (2019; 2021; 2023) Screen
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 ?? ?? L’immagine Theodoulos Polyviou (1989), (2024), fino al 7 luglio alla Fondazione Elpis di Milano
L’immagine Theodoulos Polyviou (1989), (2024), fino al 7 luglio alla Fondazione Elpis di Milano

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