Corriere della Sera - La Lettura
La sinfonia dei destini in quattro movimenti
In una sorta di tetralogia di racconti dal ritmo musicale, Helena Janeczek rimane fedele allo spirito e allo stile de «La ragazza con la Leica»: tratteggia figure storiche o circostanze reali, coglie svolte personali o silenziosi mutamenti epocali
Rcon la Leica con Il tempo degli imprevisti; e però nella misura del racconto: quattro storie disposte in successione cronologica interna, nel rispetto delle biografie dei personaggi, costruite con mirabile orchestrazione tonale, da sinfonia in quattro tempi.
Storie che partono con un tempo musicale da Allegro con fuoco, avendo Le sorelle Zanetta come protagonista la straordinaria figura di Abigaille, che vive la propria vita nel segno d’una coerenza e limpidezza di scelte, e di quel fuoco socialista e operaista che alimenta dentro di sé, divenendo una protagonista (ingiustamente assai poco nota) delle lotte del movimento operaio e di quello femminista. Un racconto che si sviluppa su due temi, incentrati sul rapporto di Abigaille con due altre donne: la sorella Erminia, per l’ambito familiare ed educativo, e le difficoltà opposte a chi, come loro, crede «in una pedagogia nuova», all’insegna del «dare ai figli del popolo gli strumenti per diventare italiani e cittadini, come sarebbe stato nello spirito di loro padre garibaldino e mazziniano». E Anna Kuliscioff, con la quale entra in contatto dopo esser passata dal doposcuola in parrocchia alla lotta politica, sospinta dalla «fede in un mondo senza padroni e forte della certezza di non essere sola a volerlo, ma parte di un movimento senza confini», sino a iscriversi nel 1910 al Partito socialista; attuando però una militanza tanto intransigente da scontrarsi con la stessa Kuliscioff e Filippo Turati, in particolare sul tema dell’interventismo. Con lei che, invocando lo sciopero generale e diffondendo manifesti pacifisti, si ritrova incarcerata per «disfattismo» a San Vittore, e persino al confino (esperienze che rivivrà sotto il fascismo). Un racconto giocato stilisticamente su più piani: più sciolta nella ricostruzione narrativa; felice nella scelta stilistica dei monologhi della sorella; un po’ legata nella scrittura quando ricalca o monta i documenti.
È invece nella neoitaliana Merano del maggio-giugno 1920 che Una stagione di cura propone un dottor K. alle prese con una situazione curiosa: il sentirsi «denunciato perché quella mattina aveva ricevuto una lettera con tutta l’aria di essere stata manomessa». E due sono in realtà le motivazioni dell’intrusione: la sua corrispondente Milena, la giovane traduttrice ceca del suo Fuochista, con la quale ha però impiegato più d’un mese per venire al «motivo per cui si era avviata la corrispondenza», dedicando ben quattro lettere invece a raccontarsi. Tanto più sospetti perché «scrivono entrambi sui giornali, l’una in boemo, l’altro in tedesco». E l’essersi egli intrattenuto, giungendo a Merano, «attorno al monumento» di Andreas Hofer. Un K., schedato come «funzionario cecoslovacco benché appartenente al gruppo tedesco di religione mosaica», che a Merano per la verità è venuto in seguito a «una brutta polmonite», ospite della economica e tranquilla pensione Ottoburg gestita dalla curiosa signora Stefanie, e in cura dal dottor Kohn, anch’egli di Praga. Il quale si trova di fronte un paziente che però ora sragiona «di una lettera all’apparenza violata, spiata, manomessa», «una mente provata anche dall’astenia e dall’affanno, in definitiva, dalla tubercolosi». Un Adagio narrativo gestito con finezza e un tocco di garbata ironia, nel quale si alternano le voci-pensiero di K.(afka) e Kohn, con inserti di Stefanie, Milena, l’infermiera Golda e la giovane «spia» Pepi.
Ha invece i tempi del Minuetto la danza a due che in L’ultimo autunno a Venezia un io narrante anonimo conduce con Maria per le calli, presentandosi inizialmente nelle vesti di pitocco, per chiudere in quelle di «angelo custode» di lei, «seguita per anni, senza sapere esattamente il perché, sino a questo momento». Nel quale peraltro non riconosce nella «bea putea» coi «cavei d’un angioleto», non fosse stato per la presenza della sua accompagnatrice, «la nostra mamma», quella «cosina chiarissima senza capelli che parevi né maschio né femmina, e così magra che poppavi a fatica» capitata in malga, presso una famiglia di contadini tirolesi della val Pusteria che alleva «noi figli della gente girovaga». Una sorella di latte, dunque, accolta come mandata dal Signore pur se «piovuta da fuori più dei tuoi fratellastri di cattivo sangue, tu nostra sorella per un tempo contato», essendo lei (ovviamente: Mary de Rachewiltz) «l’erede del grande poeta» (Ezra Pound), «un genio, un gigante, un
⚫⚫⚫ Vicende Si va dal socialismo primonovecentesco a Kafka a Merano, da Pound a Venezia fino alla Trieste degli intellettuali ebrei
padre magnifico», «questo foresto col barbon da vecio e i cavei per aria». Un incontro che cade alla vigilia della partenza di Maria per Firenze, e che gli fa ricostruire l’infanzia comune, dal drammatico parto, in clinica, dove sarebbe certamente morta se, «dietro la porta accanto, un bugigattolo cieco, un’altra non avesse continuato a urlare qualcuno mi aiuti, implorando Gesù e Maria con il filo di voce rimasto» per quel figlio che invece «muore», con la neonata che può ricevere il latte da quella che di fatto sarà «la nostra amatissima mamma».
Una sinfonia che chiude con un Andante (con coro) d’una particolarissima atmosfera. Perché è una Trieste del 193738 che, facendo perno sulla figura di Alberto, che s’affaccia nel racconto come «quello che aspetta il professore davanti alla scuola», porta il lettore dentro sogni, tensioni, e speranze d’un folto gruppo di intellettuali della comunità ebraica. Perché il poco più che ventenne Alberto è Otto-Albert Hirschman, futuro celebre economista, allievo del docente di statistica Pierpaolo Luzzatto Fegiz, qui venuto per raggiungere la sorella Ursula, moglie di Eugenio Colorni, il professore di «italiano e storia» al Carducci, «vecchio liceo italiano ora parificato a istituto magistrale». Un gruppo nel quale figurano Mario Fubini (nonno di Federico, giornalista del «Corriere»), con la moglie Alma Goldschmied «rientrato da Torino per l’estate», ove quell’anno insegna Lettere, e suo fratello Renzo, «il Fubini tatòn»; il ricordato Luzzatto Fegiz (padre di Mario, anch’egli giornalista del «Corriere»), dal passato ricco «di sport e avventure», ma pure il suo anziano genitore avvocato Luzzatto. E ancora i Cosulich, la libreria antiquaria di Umberto Saba, i caffè Garibaldi e Stella Polare: per un chiacchiericcio che va via via assumendo una fascinosa dizione da coro. E però con finale di tono malinconicamente Grave. Con, nel settembre 1938, l’arresto di Colorni, e lo scoppio del «problema ebraico».