Corriere della Sera - La Lettura

Siamo tutti strani(eri)

Sta per aprire la 60ª Biennale d’Arte di Venezia curata dal brasiliano Adriano Pedrosa. L’attenzione ai Sud del mondo e alle sensibilit­à queer

- PIERLUIGI PANZA

di

In occasione dei settecento anni dalla morte di Marco Polo, la Biennale avrebbe potuto omaggiare il grande veneziano proponendo un’esplorazio­ne dei nuovi Orienti dell’arte. Ha preferito, con Adriano Pedrosa, primo curatore sudamerica­no (è brasiliano), guardare alle civiltà latino-americane ed ex terzomondi­ste per riscattarl­e dal cono d’ombra in cui sono finite ottenendo come riconoscim­ento la prima visita di un Papa (argentino) alla mostra. Dopo le rassegne afro-femministe del 2022 e 2023, questa 60ª Biennale porta, dunque, alla luce un altro universo desapareci­do. Ciò ha encomiabil­e valore testimonia­le sebbene le creazioni artistiche di questo Sud del Mondo appaiano apprezzabi­li, più che per i valori estetici, per l’impegno di resistenza al globalismo finanziari­o. Un’opposizion­e anticapita­listica che data agli anni Settanta e ora si accorda con tematiche alla moda quali il neofemmini­smo, la fluidità, l’universo Lgbtq+, il mondo queer e neo-pacifista.

La 60ª Biennale è costituita da 88 padiglioni nazionali e dalla mostra Foreigners Everywhere/Stranieri Ovunque, curata da Pedrosa, che si articola tra il Padiglione Centrale ai Giardini e l’Arsenale in due nuclei distinti: il nucleo contempora­neo e il nucleo storico. Il titolo è tratto da opere del collettivo Claire Fontaine, nato a Parigi e con sede a Palermo. Queste opere consistono in sculture al neon di vari colori che riportano, in diverse lingue, le parole «Stranieri Ovunque».

L’espression­e è stata a sua volta ripresa dal nome di un omonimo collettivo torinese che combatteva razzismo e xenofobia. A cascata vengono i collegamen­ti con le parole-chiave della contempora­neità: straniero rimanda a strano «e strano — afferma Pedrosa — si traduce in inglese con strange, che vuol dire anche queer». Siamo al dunque: Pedrosa è «il primo curatore queer», la mostra è queer e gli artisti sono, per definizion­e, dei queer, dei tipi strani. Per questo si espongono opere di artisti che si muovono all’interno di diverse sessualità e generi, che sono outsider o ai margini del sistema, autodidatt­i, apolidi, folk, popular o, persino, indigeni ma stranieri in patria.

Viene proprio da quest’ultima «categoria» il primo segno che incontriam­o entrando in Biennale, ovvero il monumental­e murales realizzato dal collettivo brasiliano Mahku sulla facciata del Padiglione Centrale. Appartiene a questa «categoria» pure la grande installazi­one nella prima sala dell’Arsenale firmata dal collettivo Maataho di Aotearoa della Nuova Zelanda (Takapau del 2022, una gigantesca costruzion­e in acciaio inossidabi­le). Le altre 39 opere di artisti contempora­nei sono suddivise nei temi «Attivismo della diaspora» e «Disobbedie­nza di genere». Molte sono pitture con presenza di artigianat­o e di pratiche trasmesse di padre in figlio. Spesso sono molto colorate e di buona fattura, sebbene piuttosto ingenue, come l’enorme tela ricamata da Bordadoras de Isla Negra (Untitled del 1972), lunga otto metri.

Il nucleo storico è composto da opere del XX secolo provenient­i dal

l’America Latina e, meno, da Africa e Asia. Qui, come nella Biennale curata da Cecilia Alemani, si va al disvelamen­to delle radici del contempora­neo partendo dalla riscoperta del Modernismo nel Sud del mondo, rimasto spesso inespresso per l’adesione al marxismo. La prima sala del nucleo storico al Padiglione Centrale ospita i «Ritratti» realizzati da 112 artisti: è un trionfo della pittura, non sempre espressiva. Nella seconda sala troviamo le «Astrazioni», opere di 37 artisti giustappos­te una all’altra: sono quasi sempre pittoriche con qualche composizio­ne polimateri­ca come il riuscito assemblagg­io di Bona Pieyre de Mandiargue­s (Toro nuziale del 1958). La terza sala è dedicata alla diaspora di artisti italiani che si sono trasferiti all’estero integrando­si nelle culture locali e costruendo lì le proprie carriere: epitome è, ovviamente, Lina Bo Bardi, Leone d’oro alla memoria nella Biennale 2021.

Dovunque sono banditi digitale, Nft, Ia e sperimenta­zione che non siano materiche, fatte con le mani. La mostra è affiancata da 90 Partecipaz­ioni nazionali negli storici padiglioni ai Giardini, all’Arsenale e anche nel centro storico. Sono quattro i Paesi presenti per la prima volta: Benin, Etiopia (vedi pagina 36), Timor Leste e Tanzania. Nicaragua, Repubblica di Panama e Senegal partecipan­o per la prima volta con un proprio padiglione. Certamente quello della Santa Sede (vedi pagina 32), ubicato nella Casa di reclusione

Le partecipaz­ioni

Ottantotto padiglioni nazionali; quattro esordienti (Benin, Etiopia, Timor Leste e Tanzania); attesa per quello vaticano

femminile alla Giudecca, è di grande attrazione e in linea con i temi scelti da Pedrosa: annunciano questa adesione i due enormi piedi sporchi che Cattelan disegna sulla facciata d’ingresso del carcerepad­iglione con il nome Father, chiaro rimando alla Madonna dei pellegrini di Caravaggio o al Cristo morto di Mantegna.

Concludend­o da dove siamo partiti, per un omaggio a Marco Polo bisogna andare fuori Biennale, a Ca’ Rezzonico, dove Lorenzo Quinn (che l’altra volta presentò le due enormi mani che spuntavano dal Canal Grande) presenta Souls of Venice: il progetto, realizzato con la Fondazione Musei Civici, propone 15 statue realizzate in rete ciascuna rappresent­ante una figura della storia di Venezia.

Per vedere arte contempora­nea italiana bisogna invece arrivare a Ca’ Pesaro dove Chiara Dynys espone Lo Stile ,un progetto site related che reinterpre­ta il Neoplastic­ismo e il movimento De Stijl. Per il contempora­neo internazio­nale a Palazzo Franchetti con Breasts, dove sono esposte opere di Louise Bourgeois, Sarah Lucas, Laure Prouvost, Oliviero Toscani e Aurora Pellizzi, Robert Mapplethor­pe, Irving Penn, Cindy Sherman e Marcel Duchamp.

Il resto del programma è dettato dal proliferar­e di ricche fondazioni private con propri menu à-la-carte: la fondazione Anish Kapoor a Palazzo Manfrin, la Fondazione Nicolas Berggruen ai Tre Oci e, dal 20 aprile, a Palazzo Diedo con il Berggruen Arts&Culture, la Fondazione Barovier&Toso a Murano e a Santa Croce quella dell’artista turco Ahmet Günestekin, che ha appena acquistato palazzo Gradenigo. Infine, all’Isola di San Giacomo, sede veneziana della Fondazione Sandretto Re Rebaudengo, un programma con Hans Ulrich Obrist. Proprio a San Giacomo, tra i vecchi depositi di polvere da sparo, nella Biennale teatro del 1975 il regista Jerzy Grotowski mise in scena la sua celebre

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In alto, da sinistra in senso orario: Mataaho Collective, Takapau (2022), prima sala all’Arsenale; Bona Pieyre de Mandiargue­s, Toro Nuziale, assemblagg­io del 1958; Bordadoras de Isla Negra (1967-1980) Untitled (1972, otto metri). Qui sopra: opera del collettivo Claire Fontaine che dà il titolo all’esposizion­e. A destra: Yinka Shonibare (Londra, 1962) Refugee Austronaut II (2016)
Le opere In alto, da sinistra in senso orario: Mataaho Collective, Takapau (2022), prima sala all’Arsenale; Bona Pieyre de Mandiargue­s, Toro Nuziale, assemblagg­io del 1958; Bordadoras de Isla Negra (1967-1980) Untitled (1972, otto metri). Qui sopra: opera del collettivo Claire Fontaine che dà il titolo all’esposizion­e. A destra: Yinka Shonibare (Londra, 1962) Refugee Austronaut II (2016)

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