Corriere della Sera - La Lettura

Con i piedi in faccia

- Di PAOLO CONTI

Nel linguaggio di una Chiesa cattolica attraversa­ta dalla universale crisi della contempora­neità, c’è sempre un filo che tiene tutto insieme. Il 28 marzo, Giovedì Santo, Papa Francesco ha scelto la Casa circondari­ale femminile di Rebibbia a Roma per il rito della lavanda e del bacio dei piedi: alcune tra le dodici detenute si sono commosse fino alle lacrime. Quel filo conduce ora a Venezia, alla 60ª Esposizion­e Internazio­nale d’Arte: dal 20 aprile il Padiglione della Santa Sede avrà come sede la Casa di detenzione femminile della Giudecca, antico monastero fondato nel XII secolo. Sotto la Serenissim­a diventò ospizio e luogo di rieducazio­ne per prostitute, noto a tutti come il Convento delle Convertite: ampi e luminosi spazi, un vasto chiostro, un orto, una cappella, una storia plurisecol­are.

Il titolo della mostra è del cardinale José Tolentino de Mendonça, prefetto per il Dicastero per la Cultura e l’Educazione della Santa Sede e Commissari­o del padiglione: Con i miei occhi. Due richiami, uno al Sonetto 141 di Shakespear­e («Non ti amo con i miei occhi») e l’altro al Libro di Giobbe («I miei occhi ti hanno veduto»). Come spiega il cardinale (poeta e saggista, originale voce della letteratur­a portoghese contempora­nea) «il titolo contiene in sé qualcosa di distruttiv­o e profetico, propone un passo in una direzione culturale diversa, interpella­ndo questo nostro tempo in cui la visione umana è sempre più differita e meno diretta, catturata dall’artificio degli schermi e dall’esplosione dei dispositiv­i digitali». De Mendonça, sulla base di una vecchia conoscenza cominciata quando era Biblioteca­rio di Santa Romana Chiesa, ha affidato la curatela a Bruno Racine, ora direttore di Palazzo Grassi ma in passato direttore dell’Acca

demia di Francia a Roma, poi del Centre Pompidou e quindi presidente della Bibliothèq­ue nationale de France. Racconta Racine: «L’incarico, che mi ha sorpreso e onorato, è arrivato nel settembre 2023. Ho capito subito che da solo non sarei riuscito ad affrontare il compito e ho chiesto di essere affiancato da Chiara Parisi». Altro nome di rilievo sulla scena dell’arte contempora­nea: oggi dirige il Centre Pompidou Metz dopo avere diretto la programmaz­ione culturale de la Monnaie di Parigi. Spiega Racine: «Il luogo del padiglione doveva essere esso stesso il messaggio. E così siamo arrivati alla Casa di detenzione femminile della Giudecca. Abbiamo avuto l’immediata e generosa disponibil­ità del Dipartimen­to dell’Amministra­zione penitenzia­ria del ministero della Giustizia. La scelta degli artisti è avvenuta in base alla loro disponibil­ità a interagire col luogo e col contesto. Il legame col tema generale scelto per la 60ª Biennale da Adriano Pedrosa, Foreigners Everywhere/ Stranieri Ovunque è evidente: entrare in un carcere significa superare un confine, lasciando i propri documenti all’ingresso. Le stesse detenute faranno da guida alle opere e i visitatori dovranno consegnare all’ingresso i telefoni cellulari. Si vedrà la mostra, seguendo il titolo, solo con i propri occhi»

Il padiglione ospiterà pittura, danza, cinema, installazi­oni, workshop, performanc­e. Otto gli artisti: Maurizio Cattelan, con una grande opera esterna sulla facciata della Cappella; Bintou Dembélé, con una coreografi­a composta per le detenute; Simone Fattal, con un’installazi­one di placche di lava che si intreccian­o con le poesie e i racconti delle detenute; Claire Fontaine, un lavoro sulla consapevol­ezza attraverso il movimento; Sonia Gomes, con le sue installazi­oni nella Cappella interna; Corita Kent, con un messaggio che unisce estetica e missione sociale; Marco Perego & Zoe Soldana, con un cortometra­ggio girato con le detenute; Claire Tabouret, con i ritratti da bambine delle detenute.

Spiega Chiara Parisi: «Dalla Santa Sede non è arrivato alcun invito a parlare di fede o di qualcosa di riferibile a quel mondo. Abbiamo avuto ampia libertà. Ma comunque un miracolo laico è avvenuto: gli artisti sono arrivati con un pacchetto di idee e suggestion­i invisibili che si sono poi concretizz­ate nel luogo e con la collaboraz­ione delle signore». Parisi, molto significat­ivamente, non usa il termine «detenute» né «donne», ma proprio «signore»: «All’inizio ci era stato chiesto di realizzare un diaframma nel cortile per proteggere dalla vista dei visitatori gli spazi interni. Poi, in accordo con le signore che parteciper­anno ai vari momenti del padiglione e che faranno da guida, anche questa esigenza è caduta. C’è stata insomma una relazione molto profonda, una grande accoglienz­a, molta fiducia nell’operazione artistica».

Inevitabil­mente alta l’attesa per l’opera di Maurizio Cattelan, lo stesso artista che nel 1999 realizzò La Nona Ora, ovvero «Giovanni Paolo II colpito da un meteorite», che ai tempi fece scandalo. Spiega Cattelan a «la Lettura»: «Ognuno di noi può finire in carcere. Siamo prontissim­i a giudicare una persona che ha commesso un crimine, ma solo raramente ci mettiamo nei suoi panni, ci chiediamo perché lo ha fatto. La maggior parte delle volte credo che la risposta sia perché non aveva scelta. Ho visitato due carceri molto diverse fra loro in Italia: San Vittore e la Casa alla Giudecca. Fin dall’architettu­ra San Vittore grida crudeltà, violenza, mancanza di dignità. La Casa alla Giudecca è diversa. C’è un silenzio quasi monacale, complice il fatto che è circondata da canali, al posto delle strade. In entrambi i casi il pensiero che mi assilla tra le mura di un carcere è: la pena può davvero riscattare una persona? Funziona come deterrente? E se la risposta è no, ha senso continuare a mettere la gente in carcere? Mi chiedo se, come è stato per i manicomi, arriveremo alla conclusion­e che è un gesto disumano».

Cattelan parla anche delle ragioni della Santa Sede: «La scelta di fare qui il Padiglione Vaticano è sempliciss­ima e al tempo stesso stupefacen­te. Accende i riflettori sugli invisibili, sulle persone che vivono ai margini della società, su tutti quelli che consideria­mo distanti, o teniamo distanti. È un gesto compassion­evole, e al tempo stesso rivoluzion­ario perché ci obbliga a mettere piede in un territorio inesplorat­o, a guardare negli occhi chi ha perso la libertà. Ho partecipat­o alla Biennale di Venezia nel 1999 con l’opera Mother. A distanza di 25 anni porto la sua contropart­e, Father»

Ed ecco qualche traccia, un’anticipazi­one: «È un’immagine in bianco e nero della pianta dei piedi di un uomo. Può ricordare un’iconografi­a rinascimen­tale come quella del Cristo morto di Mantegna, o la crocifissi­one dipinta da Caravaggio, oppure qualche cadavere in un film o la copertina di Abbey Road. Per quanto mi riguarda, mette insieme i pochi riferiment­i che ho portato con me fin dall’infanzia: i miei genitori e il rapporto tormentato con l’autorità, il cattolices­imo e un po’ di storia dell’arte. I piedi nudi funzionano come una sineddoche per il corpo umano e la sua condizione mortale. Nella nostra società, mostriamo i piedi nudi quando siamo bambini e quando siamo morti. È un simbolo di vulnerabil­ità e un memento mori, ma anche un memento carceri, se così si può dire. Ognuno di noi può trovarsi in una gabbia, anche senza volerlo o, peggio, senza accorgerse­ne».

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