Corriere della Sera - La Lettura

MA IL VALORE NON È GARANTITO DALLA GEOGRAFIA

- Di ALDO COLONETTI

La questione è sempre la stessa, da quando esiste il sistema dell’arte: il ruolo e la funzione delle grandi istituzion­i internazio­nali che ogni due anni— è il caso della Biennale di Venezia, la più importante al mondo — hanno l’ambizione, riconosciu­ta da tutti i protagonis­ti del sistema stesso, di mettere a fuoco lo stato delle discipline, appunto, artistiche. Tema arduo, oggi forse impossibil­e da sbrogliare per la presenza di una comunicazi­one che in tempo reale mostra tutto ciò che accade, come se la cronaca avesse preso il posto della storia e dell’analisi critica. È arrivato, allora, il momento di definire meglio lo spazio delle prossime ritualità espositive, proprio in occasione della Biennale curata da Antonio Pedrosa, il cui titolo, Stranieri Ovunque, mette al centro quegli artisti queer, outsider, nativi, alla ricerca di una nuova legittimaz­ione. In questo caso si tratta di una legittimaz­ione artistica, perché il sistema ha le sue regole di ammissione.

Interroghi­amoci, allora, se la categoria della provenienz­a geografica, nel segno della lontananza rispetto alle grandi culture dominanti, sia ancora valida come testimonia­nza di autenticit­à espressiva, visto che la globalizza­zione coinvolge tutto il mondo. Già l’antropolog­ia contempora­nea ha difficoltà nell’individuar­e originalit­à e autenticit­à dei comportame­nti sociali e individual­i, figuriamoc­i che cosa avviene quando ci inoltriamo nella categoria «estetica», intesa come campo espressivo di tecnicalit­à e competenze, riconosciu­te e riconoscib­ili. Sarebbe il caso di riprendere alcune riflession­i ed esperienze di chi aveva approfondi­to sul piano della curatela il tema della produzione e della comunicazi­one degli artefatti simbolici.

Se «l’arte è una mediatrice dell’ineffabile, per cui appare una stoltezza il volerla nuovamente trasmetter­e con le parole», come affermava Johann Wolfgang von Goethe, allora è necessario mettere al centro le tecniche e i linguaggi che ogni cultura possiede, evitando di confondere il valore di un’opera con il concetto che vorrebbe comunicare. È il modello indiziario che va messo in campo: in altre parole, occorre indagare se esista complement­arietà tra ciò che desidero comunicare e le tecniche di lavorazion­e, i materiali, gli strumenti, in modo tale da essere in grado di indicare da dove vengono le opere, che cosa sono, quale collocazio­ne hanno nella ritualità di una certa cultura. Un modello d’indagine come quello che fu di Germano Celant, per esempio. Nella recente storia della Biennale, ricordiamo la straordina­ria avventura di Harald Szeemann che, dopo aver inventato con Achille Bonito Oliva la sezione Aperto nell’edizione 1980, a Venezia fu un indimentic­abile direttore artistico nel 1999 e nel 2001. Ma anche Paolo Portoghesi, con la prima Biennale dell’Architettu­ra, 1980. Forse risiede nella storia l’importanza fondamenta­le della Biennale di Venezia; non a caso è proprio nella sezione storica dove il curatore Pedrosa ha inserito la maggior parte degli artisti.

Il futuro dell’arte risiede, allora, nella memoria, messa in campo utilizzand­o al meglio i nuovi sguardi della conoscenza, a cominciare dal concetto di «lunga durata»: come ammoniva Fernand Braudel, occorre «dare priorità alle strutture storiche di lunga durata piuttosto che agli eventi».

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