Corriere della Sera - La Lettura
Il burattino appeso alla vita nella nebbia
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Anche lontano dall’Ospedaletto di Venezia, due mostre e due anniversari confermano come la nebbia non sia (e forse non sia mai stata) soltanto un fenomeno meteorologico, almeno nell’arte: un mare di nebbia è quello che il Viandante (1818) di Caspar David Friedrich osserva dall’alto di una roccia in una delle opere simbolo del grande romantico tedesco (conclusa la prima tappa all’Hamburger Kunsthalle, sarà esposta dal 19 aprile al 4 agosto all’Alte Nationalgalerie di Berlino per celebrare i 250 anni della nascita di Friedrich); un’altra nebbia (certamente più sottile e impalpabile di quella tumultuosa del Viandante) avvolge il porto di Le Havre dipinto da Claude Monet nella tela-manifesto dell’Impressionismo (Impression, soleil levant, 1872) fino al 14 luglio al centro della mostra al Musee d’Orsay di Parigi per i 150 anni del movimento.
Simbolo perfetto e senza tempo di ogni possibile straniamento, da William Turner (Sun rising through vapour, 1807 circa) a Winslow Homer (The fog warning, 1850) fino a Ólafur Elíasson (che nel 2019 alla Tate Modern di Londra aveva allestito Your blind passenger, un tunnel di nebbia lungo 45 metri), questo ammasso di goccioline d’acqua è ora il protagonista assoluto della mostra Nebula che si apre il 17 aprile al Complesso dell’Ospedaletto di Venezia. È il secondo capitolo (dopo Penumbra del 2022 dove l’incertezza era nascosta tra luce e ombra) di una serie di mostre realizzate dalla Fondazione In Between Art Film (sempre nello spazio dell’Ospedaletto) «per esplorare lo stato delle immagini in movimento nell’arte contemporanea e indagare il labile confine tra il vedere e il comprendere, tra ciò che si percepisce e ciò a cui si crede».
Per i curatori (Alessandro Rabottini e Leonardo Bigazzi) la nebbia diventa qui «metafora di molteplici forme di disorientamento, fenomeno che da atmosferico si fa interiore e collettivo, foschia che pervade tanto il campo visivo quanto un’intera epoca». Di fatto Nebula raccoglie nell’Ospedaletto (tra la chiesa di Santa Maria dei Derelitti, la Scala del Sardi, la Sala della Musica e gli ambienti della casa di cura in parte in via di recupero, in parte ancora in disuso) otto video-installazioni site-specific commissionate e prodotte dalla Fondazione In Between Art Film nel corso degli ultimi due anni proprio per questo spazio architettonico. «Vorremmo sondare poeticamente — spiega Rabottini a “la Lettura” — un paradosso: può una visione parziale o offuscata generare nuovi significati? Può l’incertezza aprire spazi inediti di comprensione reciproca?». Mentre per Beatrice Bulgari, presidente della Fondazione In Between Art Film, Nebula propone «una narrazione sull’indeterminatezza che rende il nostro tempo opaco e incerte le nostre esistenze».
Sono video-opere che coniugano diverse idee di nebbia: la nebbia di un paesaggio in cui è possibile smarrirsi o trovare la salvezza, la nebbia della coscienza, la nebbia di una voce o di una musica che allontana la realtà. Di fatto, l’intero Complesso dell’Ospedaletto è trasformato «in un’architettura sensoriale, uno spazio poroso e tattile — così lo definiscono i curatori — in cui storie, immagini e voci travalicano la dimensione della stanza in cui sono collocati».
Basir Mahmood (1985) per la video-installazione Brown bodies in an open landscape are often migrating ha chiesto a una troupe cinematografica di sceneggiare e dirigere una serie di sequenze basate su video (trovati online) registrati dai migranti durante i loro spostamenti dall’Asia meridionale all’Europa per raccontare la «nebbia» di una speranza che, in molti casi, è destinata a non diventare realtà. Ancora la «nebbia», stavolta quella della memoria, è alla base di Nebula di Giorgio Andreotta Calò (1979): i ricordi d’infanzia dell’artista (nel Complesso il padre ha lavorato come infermiere all’inizio degli anni Ottanta) si sovrappongono alle immagini di una pecora (accompagnata dal ricorrente suono di un campanellino) che attraversa gli spazi abbandonati dell’Ospedaletto (un modo, secondo i curatori, anche «per rendere omaggio alla visione rivoluzionaria di Franco Basaglia, lo psichiatra veneziano che ha ridefinito i nebulosi confini tra salute e malattia, tra cura e custodia»). Cinthia Marcelle (1974) e Tiago Mata Machado (1973) con Acumalacao primitiva; Basel Abbas (1983) e Ruanne Abou-Rahme (1983) con Until we became fire and fire us; Ari Benjamin Meyers (1972) con Marshall Allen, 99, Astronaut; Christian Nyampeta (1981) con When Rain cloud gather; Saodat Ismailova (1981) con Melted in the sun utilizzano dunque l’Ospedaletto come cassa di risonanza, in qualche modo ridefinendo lo stesso spazio (Basir Mahmood, ad esempio, mette letteralmente a confronto le immagini tragiche dei migranti con la drammaticità delle pale d’altare della Chiesa di Santa Maria dei Derelitti).
È proprio l’indeterminatezza che la nebbia impone a consentire confronti e narrazioni impossibili: come dimostra l’opera che chiude il percorso (diviso su più livelli), quella di Diego Marcon (1985). Che vede protagonista Fritz (da lui prende il titolo anche la video-installazione), un burattino-ragazzino che canta uno jodel in una legnaia fiocamente illuminata da un’alba autunnale. Il suo jodel non ha niente di gioioso, sembra piuttosto un requiem. La nitidezza e la semplicità della scena sono rassicuranti, ma allo stesso tempo assurde e inquietanti. Fritz sembra come sospeso tra l’infanzia e l’età adulta, tra l’essere nel mondo e l’essere «senza mondo», tra essere «umano» o «burattino».
Fondendo tra loro elementi drammatici, comici, grotteschi ed evocando allo stesso tempo personaggi letterari (a cominciare proprio dal Pinocchio di Collodi), Diego Marcon mette in scena un abisso di orrore e stupore: perché Fritz è impiccato, ma con gli occhi aperti, tira piccoli calci contro la parete e muove le gambe come per dondolarsi. Dunque, non è morto, ma nemmeno vivo, anche lui perso nella «sua» nebula, quella tra la vita e la morte.