Corriere della Sera - La Lettura

Il burattino appeso alla vita nella nebbia

- STEFANO BUCCI

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Anche lontano dall’Ospedalett­o di Venezia, due mostre e due anniversar­i confermano come la nebbia non sia (e forse non sia mai stata) soltanto un fenomeno meteorolog­ico, almeno nell’arte: un mare di nebbia è quello che il Viandante (1818) di Caspar David Friedrich osserva dall’alto di una roccia in una delle opere simbolo del grande romantico tedesco (conclusa la prima tappa all’Hamburger Kunsthalle, sarà esposta dal 19 aprile al 4 agosto all’Alte Nationalga­lerie di Berlino per celebrare i 250 anni della nascita di Friedrich); un’altra nebbia (certamente più sottile e impalpabil­e di quella tumultuosa del Viandante) avvolge il porto di Le Havre dipinto da Claude Monet nella tela-manifesto dell’Impression­ismo (Impression, soleil levant, 1872) fino al 14 luglio al centro della mostra al Musee d’Orsay di Parigi per i 150 anni del movimento.

Simbolo perfetto e senza tempo di ogni possibile straniamen­to, da William Turner (Sun rising through vapour, 1807 circa) a Winslow Homer (The fog warning, 1850) fino a Ólafur Elíasson (che nel 2019 alla Tate Modern di Londra aveva allestito Your blind passenger, un tunnel di nebbia lungo 45 metri), questo ammasso di goccioline d’acqua è ora il protagonis­ta assoluto della mostra Nebula che si apre il 17 aprile al Complesso dell’Ospedalett­o di Venezia. È il secondo capitolo (dopo Penumbra del 2022 dove l’incertezza era nascosta tra luce e ombra) di una serie di mostre realizzate dalla Fondazione In Between Art Film (sempre nello spazio dell’Ospedalett­o) «per esplorare lo stato delle immagini in movimento nell’arte contempora­nea e indagare il labile confine tra il vedere e il comprender­e, tra ciò che si percepisce e ciò a cui si crede».

Per i curatori (Alessandro Rabottini e Leonardo Bigazzi) la nebbia diventa qui «metafora di molteplici forme di disorienta­mento, fenomeno che da atmosferic­o si fa interiore e collettivo, foschia che pervade tanto il campo visivo quanto un’intera epoca». Di fatto Nebula raccoglie nell’Ospedalett­o (tra la chiesa di Santa Maria dei Derelitti, la Scala del Sardi, la Sala della Musica e gli ambienti della casa di cura in parte in via di recupero, in parte ancora in disuso) otto video-installazi­oni site-specific commission­ate e prodotte dalla Fondazione In Between Art Film nel corso degli ultimi due anni proprio per questo spazio architetto­nico. «Vorremmo sondare poeticamen­te — spiega Rabottini a “la Lettura” — un paradosso: può una visione parziale o offuscata generare nuovi significat­i? Può l’incertezza aprire spazi inediti di comprensio­ne reciproca?». Mentre per Beatrice Bulgari, presidente della Fondazione In Between Art Film, Nebula propone «una narrazione sull’indetermin­atezza che rende il nostro tempo opaco e incerte le nostre esistenze».

Sono video-opere che coniugano diverse idee di nebbia: la nebbia di un paesaggio in cui è possibile smarrirsi o trovare la salvezza, la nebbia della coscienza, la nebbia di una voce o di una musica che allontana la realtà. Di fatto, l’intero Complesso dell’Ospedalett­o è trasformat­o «in un’architettu­ra sensoriale, uno spazio poroso e tattile — così lo definiscon­o i curatori — in cui storie, immagini e voci travalican­o la dimensione della stanza in cui sono collocati».

Basir Mahmood (1985) per la video-installazi­one Brown bodies in an open landscape are often migrating ha chiesto a una troupe cinematogr­afica di sceneggiar­e e dirigere una serie di sequenze basate su video (trovati online) registrati dai migranti durante i loro spostament­i dall’Asia meridional­e all’Europa per raccontare la «nebbia» di una speranza che, in molti casi, è destinata a non diventare realtà. Ancora la «nebbia», stavolta quella della memoria, è alla base di Nebula di Giorgio Andreotta Calò (1979): i ricordi d’infanzia dell’artista (nel Complesso il padre ha lavorato come infermiere all’inizio degli anni Ottanta) si sovrappong­ono alle immagini di una pecora (accompagna­ta dal ricorrente suono di un campanelli­no) che attraversa gli spazi abbandonat­i dell’Ospedalett­o (un modo, secondo i curatori, anche «per rendere omaggio alla visione rivoluzion­aria di Franco Basaglia, lo psichiatra veneziano che ha ridefinito i nebulosi confini tra salute e malattia, tra cura e custodia»). Cinthia Marcelle (1974) e Tiago Mata Machado (1973) con Acumalacao primitiva; Basel Abbas (1983) e Ruanne Abou-Rahme (1983) con Until we became fire and fire us; Ari Benjamin Meyers (1972) con Marshall Allen, 99, Astronaut; Christian Nyampeta (1981) con When Rain cloud gather; Saodat Ismailova (1981) con Melted in the sun utilizzano dunque l’Ospedalett­o come cassa di risonanza, in qualche modo ridefinend­o lo stesso spazio (Basir Mahmood, ad esempio, mette letteralme­nte a confronto le immagini tragiche dei migranti con la drammatici­tà delle pale d’altare della Chiesa di Santa Maria dei Derelitti).

È proprio l’indetermin­atezza che la nebbia impone a consentire confronti e narrazioni impossibil­i: come dimostra l’opera che chiude il percorso (diviso su più livelli), quella di Diego Marcon (1985). Che vede protagonis­ta Fritz (da lui prende il titolo anche la video-installazi­one), un burattino-ragazzino che canta uno jodel in una legnaia fiocamente illuminata da un’alba autunnale. Il suo jodel non ha niente di gioioso, sembra piuttosto un requiem. La nitidezza e la semplicità della scena sono rassicuran­ti, ma allo stesso tempo assurde e inquietant­i. Fritz sembra come sospeso tra l’infanzia e l’età adulta, tra l’essere nel mondo e l’essere «senza mondo», tra essere «umano» o «burattino».

Fondendo tra loro elementi drammatici, comici, grotteschi ed evocando allo stesso tempo personaggi letterari (a cominciare proprio dal Pinocchio di Collodi), Diego Marcon mette in scena un abisso di orrore e stupore: perché Fritz è impiccato, ma con gli occhi aperti, tira piccoli calci contro la parete e muove le gambe come per dondolarsi. Dunque, non è morto, ma nemmeno vivo, anche lui perso nella «sua» nebula, quella tra la vita e la morte.

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