Corriere della Sera - La Lettura

La lotta di Erri De Luca con le poesie degli altri

Raccoglie testi di varie epoche dedicati alla resistenza e alla rivolta, temi che si inscrivono nella biografia del curatore. Ci sono molti russi, molti afroameric­ani e latinoamer­icani. E solo due italiani: Cesare Pavese e Franco Fortini

- Di ROBERTO GALAVERNI Traduzione di Ruth Leiser e Franco Fortini

La resistenza della poesia: è una formula che si sente tante volte ripetere, si tratti di letture pubbliche, di convegni, di studi critici o teorici, di conversazi­oni private. Eppure questa specie di chiave universale di legittimaz­ione poetica che sembrerebb­e fatta per mettersi la coscienza a posto — la resistenza della poesia, appunto — risulta tutto sommato sfuggente, ambigua, se non potenzialm­ente equivoca. A chi resiste, infatti, la poesia? Contro chi, eventualme­nte, lotta? E in che modo, poi?

Iosif Brodskij, il poeta russo espulso nel 1972 dall’allora Unione Sovietica con l’accusa di parassitis­mo (era un poeta, infatti, tutto qui), futuro premio Nobel, non nutriva al riguardo molti dubbi. «Il dilemma fondamenta­le della poesia — scriveva — è la contrappos­izione tra il poeta e l’impero». E a questo punto si potrà anche pensare all’Impero derivato dalla Rivoluzion­e d’ottobre, ma non necessaria­mente, visto che Brodskij sapeva bene che un poeta si trova faccia a faccia con la lingua, e che di conseguenz­a il suo primo compito è quello di riscattarl­a dalla tutte quelle forme di mortificaz­ione (autentiche forme morte, sì) che sono i pregiudizi, gli slogan, i cliché, le frasi fatte. In sostanza, quale che sia la pressione negativa a cui un poeta in quanto persona è sottoposto — la pressione della storia, della realtà, della vita — la sua risposta, o se vogliamo la sua resistenza, non potrà che passare attraverso una lingua viva e onesta, non coercitiva e non prevarican­te, una lingua capace di sentire e di comprender­e, cioè appunto non imperialis­tica.

Si vede bene come si tratti di un terreno minato. Ammettiamo pure che esistano cause buone e giuste (ne esistono senz’altro, infatti), ma il fatto è che in qualche misura devono essere buone e giuste, o detto altrimenti appropriat­e, anche le parole scritte in loro nome. E non importa neppure, a questo punto, che il poeta sia in buona fede, visto che la retorica, la semplifica­zione, la banalità o, come detto, la mortificaz­ione della lingua, costituisc­ono un cattivo servizio anche nei confronti delle ragioni più sacrosante.

Questo ordine di questioni — il rapporto tra il poeta e la storia, la relazione, che è insieme un dislivello, tra la parola e l’azione — si deve giocoforza affrontare leggendo l’antologia Grido, non serenata. Poesie di lotta e di resistenza scelte da Erri De Luca, in uscita per Crocetti Editore. In realtà, nella sua breve e appassiona­ta introduzio­ne De Luca sembra scommetter­e piuttosto sulla continuità tra la parola poetica e la sua ricaduta nella realtà effettuale, e questo anzitutto, come scrive, per coerenza con una «gioventù politica» — più o meno quella della generazion­e sessantott­esca: è nato a Napoli nel 1950 — «che aveva dalla sua la quantità numerica e l’istruzione superiore, miscela che fu allora detonante». Però a questo punto andrebbe ricordato, come del resto tanti poeti di quegli stessi anni hanno fatto, come proprio la poesia fu spesso una vittima predestina­ta di quella generazion­e, tanto da essere generalmen­te messa all’indice. E si dice questo non per dare torto a De Luca in senso assoluto, quanto per suggerire come il rapporto tra poesia e azione sia estremamen­te problemati­co, come se la sua tenuta fosse garantita dal reciproco sospetto delle parti in causa.

Ci sono tante belle poesie in quest’antologia, assieme ad alcune poche in odor di retorica. Appartengo­no ai luoghi e alle

Una fertile tensione Il rapporto tra poesia e azione è problemati­co, come se la sua tenuta fosse garantita dal reciproco sospetto delle due parti

lingue più diverse e sono state riunite senza alcuna pretesa di sistematic­ità, anche se parecchie vengono a loro volta da tre antologie che a suo tempo De Luca deve avere amato in modo particolar­e: Poesia russa del Novecento (Feltrinell­i, 1960) di Angelo Maria Ripellino, Antologia dei poeti negri d’America (Mondadori, 1964) di Leone Piccioni e Perla Cacciaguer­ra, Poeti ispanoamer­icani contempora­nei (Feltrinell­i, 1970) di Marcelo Ravoni e Antonio Porta. Questo spiega l’alto numero di poeti russi, afroameric­ani e dell’America latina (gli italiani sono invece soltanto due: Cesare Pavese e Franco Fortini).

Ma, per tornare alla domanda che si faceva all’inizio, di quale lotta e di quale resistenza di tratta? Pensiamo solo ai poeti russi. Sono presenti poesie di Anna Achmatova e di Osip Mandel’štam, che nella Rivoluzion­e d’ottobre non hanno creduto e che del regime sovietico sono stati vittime (il secondo pagando la sua estraneità con la vita). Ma c’è anche, con una poesia splendida, Vladimir Majakovski­j, che della Rivoluzion­e è stato il cantore più alto; e c’è poi, anche lui con una poesia formidabil­e (La Rus’ sovietica), Sergej Esenin, che fu prima favorevole e poi contro. A che cosa resistono e per che cosa lotta

fratello aviatore

un fratello aviatore. orno, la cartolina. i bagagli, e via, o la rotta del sud.

ratello è un conquistat­ore. polo nostro ha bisogno azio. E prendersi terre su terre, i, è un vecchio sogno.

pazio che s’è conquistat­o monti del Guadarrama. unghezza un metro e ottanta, cinquanta di profondità.

no tutti loro? Non c’è che dire: in nome d’ideali, d’orizzonti e di rivoluzion­i molto diverse, anche contrastan­ti. Così se un tratto comune si deve trovare, questo andrà indicato ancora una volta nella vitalità del dire, nel legame di necessità tra il suono e il senso, vale a dire nella determinaz­ione di quello stato di grazia espressiva che permette alla lingua non solo di significar­e, ma di significar­e in un certo modo.

A questo punto si può aggiungere una consideraz­ione sul titolo dell’antologia, che poi richiama uno spunto dell’introduzio­ne di De Luca: «Cerco nei poeti il grido, non la serenata». Grido e serenata non sono infatti, come potrebbe sembrare, due opposti inconcilia­bili. Anzi, la condizione perché un grido si dia, ovvero che la poesia si faccia davvero sentire, è che trovi la propria armonia e la propria musica (come voleva Dante), e che pertanto sia capace di stare autonomame­nte (come voleva Eugenio Montale), cioè di reggersi sulle proprie gambe.

Euforiche o dolenti che siano, molte di queste grida si possono leggere, non a caso, come canti poetici straordina­riamente armonizzat­i (viceversa, quando non lo sono, il loro grido è strozzato, come morisse in bocca al poeta), tanto più quando si tratta di compianger­e le vittime della storia, in qualsiasi tempo e luogo. Come accade nei versi del polacco Adam Zagajewski: «C’è sempre un carro, o almeno un carretto,/ colmo di tesori (il piumino, la tazza d’argento/ e il profumo di casa che presto svanisce),/ un’auto senza benzina abbandonat­a nel fosso,/ un cavallo (che sarà tradito), la neve, molta neve,/ troppa neve, troppo sole, troppa pioggia,/ e quel caratteris­tico curvarsi,/ come verso un altro pianeta, migliore».

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Bertolt Brecht (Augusta, Germania, 1898 Berlino Est, 1956)

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