Corriere della Sera - La Lettura
La lotta di Erri De Luca con le poesie degli altri
Raccoglie testi di varie epoche dedicati alla resistenza e alla rivolta, temi che si inscrivono nella biografia del curatore. Ci sono molti russi, molti afroamericani e latinoamericani. E solo due italiani: Cesare Pavese e Franco Fortini
La resistenza della poesia: è una formula che si sente tante volte ripetere, si tratti di letture pubbliche, di convegni, di studi critici o teorici, di conversazioni private. Eppure questa specie di chiave universale di legittimazione poetica che sembrerebbe fatta per mettersi la coscienza a posto — la resistenza della poesia, appunto — risulta tutto sommato sfuggente, ambigua, se non potenzialmente equivoca. A chi resiste, infatti, la poesia? Contro chi, eventualmente, lotta? E in che modo, poi?
Iosif Brodskij, il poeta russo espulso nel 1972 dall’allora Unione Sovietica con l’accusa di parassitismo (era un poeta, infatti, tutto qui), futuro premio Nobel, non nutriva al riguardo molti dubbi. «Il dilemma fondamentale della poesia — scriveva — è la contrapposizione tra il poeta e l’impero». E a questo punto si potrà anche pensare all’Impero derivato dalla Rivoluzione d’ottobre, ma non necessariamente, visto che Brodskij sapeva bene che un poeta si trova faccia a faccia con la lingua, e che di conseguenza il suo primo compito è quello di riscattarla dalla tutte quelle forme di mortificazione (autentiche forme morte, sì) che sono i pregiudizi, gli slogan, i cliché, le frasi fatte. In sostanza, quale che sia la pressione negativa a cui un poeta in quanto persona è sottoposto — la pressione della storia, della realtà, della vita — la sua risposta, o se vogliamo la sua resistenza, non potrà che passare attraverso una lingua viva e onesta, non coercitiva e non prevaricante, una lingua capace di sentire e di comprendere, cioè appunto non imperialistica.
Si vede bene come si tratti di un terreno minato. Ammettiamo pure che esistano cause buone e giuste (ne esistono senz’altro, infatti), ma il fatto è che in qualche misura devono essere buone e giuste, o detto altrimenti appropriate, anche le parole scritte in loro nome. E non importa neppure, a questo punto, che il poeta sia in buona fede, visto che la retorica, la semplificazione, la banalità o, come detto, la mortificazione della lingua, costituiscono un cattivo servizio anche nei confronti delle ragioni più sacrosante.
Questo ordine di questioni — il rapporto tra il poeta e la storia, la relazione, che è insieme un dislivello, tra la parola e l’azione — si deve giocoforza affrontare leggendo l’antologia Grido, non serenata. Poesie di lotta e di resistenza scelte da Erri De Luca, in uscita per Crocetti Editore. In realtà, nella sua breve e appassionata introduzione De Luca sembra scommettere piuttosto sulla continuità tra la parola poetica e la sua ricaduta nella realtà effettuale, e questo anzitutto, come scrive, per coerenza con una «gioventù politica» — più o meno quella della generazione sessantottesca: è nato a Napoli nel 1950 — «che aveva dalla sua la quantità numerica e l’istruzione superiore, miscela che fu allora detonante». Però a questo punto andrebbe ricordato, come del resto tanti poeti di quegli stessi anni hanno fatto, come proprio la poesia fu spesso una vittima predestinata di quella generazione, tanto da essere generalmente messa all’indice. E si dice questo non per dare torto a De Luca in senso assoluto, quanto per suggerire come il rapporto tra poesia e azione sia estremamente problematico, come se la sua tenuta fosse garantita dal reciproco sospetto delle parti in causa.
Ci sono tante belle poesie in quest’antologia, assieme ad alcune poche in odor di retorica. Appartengono ai luoghi e alle
Una fertile tensione Il rapporto tra poesia e azione è problematico, come se la sua tenuta fosse garantita dal reciproco sospetto delle due parti
lingue più diverse e sono state riunite senza alcuna pretesa di sistematicità, anche se parecchie vengono a loro volta da tre antologie che a suo tempo De Luca deve avere amato in modo particolare: Poesia russa del Novecento (Feltrinelli, 1960) di Angelo Maria Ripellino, Antologia dei poeti negri d’America (Mondadori, 1964) di Leone Piccioni e Perla Cacciaguerra, Poeti ispanoamericani contemporanei (Feltrinelli, 1970) di Marcelo Ravoni e Antonio Porta. Questo spiega l’alto numero di poeti russi, afroamericani e dell’America latina (gli italiani sono invece soltanto due: Cesare Pavese e Franco Fortini).
Ma, per tornare alla domanda che si faceva all’inizio, di quale lotta e di quale resistenza di tratta? Pensiamo solo ai poeti russi. Sono presenti poesie di Anna Achmatova e di Osip Mandel’štam, che nella Rivoluzione d’ottobre non hanno creduto e che del regime sovietico sono stati vittime (il secondo pagando la sua estraneità con la vita). Ma c’è anche, con una poesia splendida, Vladimir Majakovskij, che della Rivoluzione è stato il cantore più alto; e c’è poi, anche lui con una poesia formidabile (La Rus’ sovietica), Sergej Esenin, che fu prima favorevole e poi contro. A che cosa resistono e per che cosa lotta
fratello aviatore
un fratello aviatore. orno, la cartolina. i bagagli, e via, o la rotta del sud.
ratello è un conquistatore. polo nostro ha bisogno azio. E prendersi terre su terre, i, è un vecchio sogno.
pazio che s’è conquistato monti del Guadarrama. unghezza un metro e ottanta, cinquanta di profondità.
no tutti loro? Non c’è che dire: in nome d’ideali, d’orizzonti e di rivoluzioni molto diverse, anche contrastanti. Così se un tratto comune si deve trovare, questo andrà indicato ancora una volta nella vitalità del dire, nel legame di necessità tra il suono e il senso, vale a dire nella determinazione di quello stato di grazia espressiva che permette alla lingua non solo di significare, ma di significare in un certo modo.
A questo punto si può aggiungere una considerazione sul titolo dell’antologia, che poi richiama uno spunto dell’introduzione di De Luca: «Cerco nei poeti il grido, non la serenata». Grido e serenata non sono infatti, come potrebbe sembrare, due opposti inconciliabili. Anzi, la condizione perché un grido si dia, ovvero che la poesia si faccia davvero sentire, è che trovi la propria armonia e la propria musica (come voleva Dante), e che pertanto sia capace di stare autonomamente (come voleva Eugenio Montale), cioè di reggersi sulle proprie gambe.
Euforiche o dolenti che siano, molte di queste grida si possono leggere, non a caso, come canti poetici straordinariamente armonizzati (viceversa, quando non lo sono, il loro grido è strozzato, come morisse in bocca al poeta), tanto più quando si tratta di compiangere le vittime della storia, in qualsiasi tempo e luogo. Come accade nei versi del polacco Adam Zagajewski: «C’è sempre un carro, o almeno un carretto,/ colmo di tesori (il piumino, la tazza d’argento/ e il profumo di casa che presto svanisce),/ un’auto senza benzina abbandonata nel fosso,/ un cavallo (che sarà tradito), la neve, molta neve,/ troppa neve, troppo sole, troppa pioggia,/ e quel caratteristico curvarsi,/ come verso un altro pianeta, migliore».